In amore come in politica il troppo struppia

Invocano il diritto alla privacy gli uomini che decidono di darsi alla vita pubblica, ma è un diritto che non esiste. Chi decide di scendere in piazza per predicare alle folle, per prima cosa dovrebbe avere il coraggio di farsi vedere nudo e a mani aperte, ritto in piedi, a gambe divaricate e a braccia aperte che fanno su e giù come l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, mentre la piattaforma sulla quale si trova il candidato gira lentamente su sé stessa in modo che nulla possa sfuggire allo sguardo attento, indagatore e severo dell’osservatore che poi dovrà decidere se votarlo o meno. E la casa dove lui abita dovrebbe avere porte e finestre sempre aperte e pareti di vetro: bagni compresi.
E se dovessero concludere che questo sarebbe chiedere troppo da loro, allora non resterebbe loro altra scelta che rinunciare a impegnarsi in un’impresa troppo grande per loro, poveri ominicchi (tra i quali non sono pochi neppure i quacquaracquà), i cui orizzonti non vanno oltre gli ottimi stipendi sui quali poter fare conto; e i privilegi, gli onori, la vanità del titolo – onorevole, senatore… ti par poco? Chi me l’avesse mai detto!
E sì, perché una cosa è potersi illudere d’essere uno che conta (mentre la maggior parte di loro non contano più di quello che contavano i popolani del Marchese del Grillo), una cosa è accettare di mettere a nudo tutti i propri difetti, le magagne, le vergogne, perché tutti ci vedano per quello che siamo: un niente alla quarta potenza.
Questa lunga premessa per far capire come io non condivido affatto le lamentele di quei partiti che puntualmente, a ogni scadenza elettorale, se la prendono con la magistratura che annuncia un mandato di garanzia nei confronti di questo o quel candidato, quasi si trattasse d’un siluro sganciato ai danni dell’uomo e del suo partito. Un vezzo questo che si affermò, fino a diventare sistema, in epoca ormai relativamente remota, l’età craxiana per intenderci, l’epoca di mani pulite, quando ogni denuncia di illecito diventava un reato di lesa maestà e i giudici furono ripetutamente accusati di abuso di potere, di ingerenza elettorale quasi fino al limite di un vero disegno eversivo da parte di una magistratura fortemente controllata e succuba di una sinistra ideologica saldamente al potere, in una specie di connubio incestuoso ai danni delle libertà democratiche e dei poteri economici dei privati.
Un connubio che non finì con la frantumazione del pool e che fu fatto proprio da quanti in Italia si fecero continuatori di quel ceto che il pool di Di Pietro aveva tentato di ricondurre nei solchi della legalità.
Non sto qui a discutere se quelle lamentele di persecuzione furono allora legittime e motivate, né a chiedermi se lo sono oggi le attuali quotidiane accuse, lagnanze e piagnistei contro una magistratura politicizzata, tutta di sinistra, tutta dedicata allo smantellamento pratico dell’unico potere legittimo che ha saputo imporsi in Italia negli ultimi venti anni di storia italiana, grazie al fenomeno Berlusconi, che ha saputo imporsi come un uomo che si può solo amare o odiare, adorare o detestare, supportare o abbattere, esaltare o disprezzare, eternare con lo strumento dinastico o spazzare via al più presto come la vera causa dell’inquinamento etico e politico che ha interessato la nostra povera Italia che non sembra saper più né da dove viene né, tanto meno, dove sta andando.
Perché non è né di partiti né di uomini che intendo scrivere qui, ma di un principio per me assolutamente sacrosanto e che si rifà a eterni principi della buona politica: se a darti un dux, un rex, un pastor è il Cielo, o la sorte, o il caso, allora ti devi accontentare di quello che ti passa il convento; se al contrario a darsi un capo deve essere la stessa società civile dello Stato sovrano (democrazia), allora è di assoluta evidenza che ciò avverrà solo in base a una scelta responsabile e matura dei cittadini elettori.
Ma come potrà mai essere responsabile o matura la mia scelta se io non so tutto di colui che intendo scegliere e favorire con il mio voto? Chi mi dirà se è oro o latta dorata quello che vedo risplendergli sul suo capo? Come saprò se è vera virtù quello che lui mi lascia vedere di sé o semplice volgare ipocrisia?
È questo il principio sul quale si fonda ogni vera democrazia: non ci può essere buon governo senza un gioco di specchi e di controlli per cui io vedo ciò che tu fai e tu vedi ciò che faccio io, e noi vediamo quello che fanno gli altri e gli altri quello che facciamo noi.
Per questo in una vera democrazia i poteri sono divisi, e la funzione dei controlli vicendevoli è una questione assolutamente essenziale. A questo serve la magistratura e la stampa e a questo mira la politica legiferante e il potere esecutivo.
Una democrazia in cui qualcuno dimenticasse di fare la sua parte di controllore avrebbe ben poche probabilità di sfuggire ai gravi abusi a cui il potere è facile lasciarsi andare. Lo sapeva bene Voltaire: «Il potere è bello se posso abusarne». Se no che me ne faccio? Sarebbero solo grane.
Sarebbe ingeneroso dire che in Italia i diversi poteri istituzionali di controllo non funzionino. Alla fine il loro dovere lo fanno anche. Per questo, per esempio, Berlusconi ha dovuto sottoporsi a tutti i diversi gradi di processo fino alla condanna definitiva: perché uno dei poteri di controllo dello Stato, ha voluto fare, pur tra mille difficoltà, la sua parte. Lo ha voluto e lo ha potuto fare. Proprio perché la magistratura non potesse assolvere la sua funzione di controllo, il potere esecutivo ha tentato in tutti i modi, per anni, di impedirglielo. Non c’è riuscito e il processo è giunto alla sua conclusione. Ora il potere legiferante è sottoposto a pressioni fortissime perché al condannato venga offerta una possibilità di fuga dalla pena, o almeno a una parte della pena. Per reazione la parte avversa, servendosi dello stesso potere, cerca di impedire un accomodamento che suonerebbe come una sconfitta.
Il caso italiano è paradossale e esemplare allo stesso tempo: il condannato grida alla persecuzione, dopo aver fatto di tutto per modificare la legge a proprio favore: lo ha fatto legittimamente.
La parte opposta è riuscito a impedirlo. Legittimamente.
La magistratura ha assolto il suo compito, che è quello di far valere la legge e di punire le violazioni: legittimo e doveroso. Il Presidente della Repubblica ha vigilato efficacemente perché tutto avvenisse nel rispetto della legge e della Costituzione: era suo preciso mandato. Lo ha assolto lodevolmente.
Eppure c’è qualcosa in Italia che non funziona. Che cosa? Darò in breve la mia risposta.
In Italia manca una coscienza civica che sappia distinguere il favore dalla passione, che sappia giudicare con il cervello e non con il cuore, che sappia riconoscere gli sbagli di chiunque li commetta e come tali sancirli e punirli. In tribunale o alla camera come allo stadio.
Ed ora a chiusura, come in un antico Contrasto:
Noi lo amiamo!
Non basta.
Noi crediamo in lui!
I più non gli credono più.
Ha fatto tanto per noi!
Molto più ha fatto per sé.
Ci siamo sentiti orgogliosi di lui!
Ci ha fatto vergognare d’essere italiani.
Ha avuto molti meriti.
E moltissimi demeriti.
Ma era così bello!
Perché non l’avete visto mai nudo.
Di che l’avremmo vestito?
D’un amore eccessivo.


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