Se lo zelo non si sposa al giudizio


Due cose mi sono ben chiare nella triste storia del parroco di Lerici: che il brav’uomo avrebbe fatto bene a non appendere quel volantino in bacheca. E che la canizza che ha fatto seguito al gesto del devoto ma sprovveduto religioso è decisamente sproporzionata alla statura intellettuale e morale del protagonista.
Sia chiaro: quando dico canizza sproporzionata non mi riferisco alle critiche, sacrosante, che si sono abbattute sul suo proclama, né alla pressante richiesta di scuse più che doverose alle donne le quali ben a ragione si sono risentite per le accuse gratuite che l’incauto aveva mosso loro. Fin qui avrei non solo sottoscritto, ma mi sarei sentito perfino sollevato al pensiero che anche i preti sanno chiedere scusa. Non accade spesso. Di fatti non è accaduto neppure questa volta.
Mi riferisco invece (e qui sono sinceramente trasecolato) all’arroganza di quei media che hanno invocato a gran voce non solo una qualche simbolica sanzione, magari le dimissioni dalla parrocchia, ma addirittura la decadenza dallo stato clericale, con forzosa o spontanea riduzione allo stato laicale (quasi fosse una pratica da sbrigarsi così su due piedi). Con tutti gli scandali che inondano il Belpaese, proprio dell’imprudenza o dell’insipienza d’un prete ci si dovrebbe occupare per direttissima.
Per alcuni giorni non c’è stato telegiornale o altro servizio giornalistico che non si producesse in una richiesta di dimissioni o di rimozione non solo dalla parrocchia, ma perfino dallo stesso stato clericale. Niente da fare: il bellicoso parroco si sarebbe concesso solo qualche giorno di riposo.
Questo accanimento mi ha mosso in un primo momento a solidarizzare con lui. Poi ho dovuto ripensarci. Però ho mantenuto la metafora venatoria della canizza: sapete il latrare furioso del branco dei cani lanciati all’inseguimento o all’attacco del cinghiale, delle volpi, della lepre, del cervo nelle grandi partite di caccia? Un latrare d’inferno che s’accresce specialmente quando si comincia a sentire l’odore del sangue dell’animale braccato, quando ogni cane reclama il suo diritto a piazzare il suo morso.
Immagine esagerata? Può darsi. Però la mantengo perché è la prima che mi è venuta. Quelle gentili signore intervistatrici e le gentili signore intervistate mi sembravano altrettanto contente d’aver l’occasione di prendersela con un povero carneade in talare che aveva la sola colpa di non essere né un genio, né un santo, né un uomo di spiccata sensibilità sociale. Un uomo che sicuramente si stupiva di tutto quel chiasso per una parola che secondo lui più giusta non si poteva.
Fin qui lo status quaestionis. Ora mi proverò a spiegargli dov’è il suo sbaglio, anche sapendo di rischiare molto presso i miei Lettori.
La prima cosa da mettere in chiaro è questa: don Corsi ha sbagliato tutto. Ha sbagliato nel pensare ciò che ha pensato, nello scrivere ciò che ha scritto, nel difendere ciò che aveva scritto. Un Pilato in trentaduesimo: ciò che ho scritto ho scritto.
No, caro don Corsi: quelle cose, prima non le dovevi pensare, poi non dovevi scriverle, infine non dovevi difenderle. Tre sbagli e tu li hai fatti tutti. Male!
Ti saresti dovuto informare meglio (non sarebbe stato difficile): a essere uccise non sono solo donne “vestite mezzo ignude” (Cesare Pascarella), ma anche donne correttamente vestite e di tutte le età: sono state violentate anche bambine di due anni (morte in conseguenza) e vecchie di ottanta e più anni (tramortite di conseguenza). Se don Corsi conoscesse il don Giovanni di Mozart saprebbe che ci sono uomini che gli basta “sentire odor di femmina” per perdere la tramontana. Chissà se conosce il celeberrimo Catalogo di Leporello? Saprebbe che ci son di quelli che vivono solo per allungare la loro lista: perchè un vero dongiovanni «non si picca se sia ricca, / se sia brutta, se sia bella:/ purché porti la gonnella, / voi sapete quel che fa».
Non ti sei reso conto, caro don Corsi, che così ferivi ogni donna onesta, specialmente quelle che in vita loro non hanno mai fatto nulla per provocare gli uomini? Ce ne sono che han solo dovuto difendersi da loro; che senza loro colpa hanno dovuto fare l’esperienza di quanto sanno essere dure le mani dell’uomo che magari hanno amato e che ora le colpisce; le stesse mani e le stesse braccia che già le hanno già strette fin quasi a togliere loro il fiato nell’ardore d’un orgasmo spesso più animalesco che d’amore, ora spezzano loro i polsi e le braccia che la natura matrigna non ha dotato di quella stessa forza: vigliacchi che di forte hanno solo le mani, mentre per tutto il resto – cuore cervello e sentimento – sono tanto più poveri che la sola prospettiva d’un futuro senza compagnia basta a gettarli nella disperazione.
Di cosa potevano essere colpevoli le due ragazze indiane, vestite dal loro lungo sary, l’una violentata a morte e massacrata da sei balordi in autobus, l’altra che s’è uccisa per la vergogna. Ti fossi almeno limitato a denunciare tutto il lurido mondo mediatico che ci mostra natiche e seni di donne similnude mentre siamo a pranzo e prima di andare a letto, i bimbi vicino a noi che già alle elementari giocano nei bagni a fare marito e moglie (sic!). Se ti difendo contro chi ti vorrebbe togliere anche la tua talare, ti supplico di cambiare almeno il tuo habitus mentale, se non vuoi che il mondo femminile ti vomiti da sé e con te tutta la Chiesa di cui sei parte e ministro.
Ora però una parola vorrei dirla anche alle donne, a quelle che soffrono sulla loro carne (o che temono di poterne soffrire) questa violenza maschile che tanto ripugna a tutti noi.
Purtroppo non ho miracoli da promettere né scorciatoie da indicare: solo realismo, speranza, fiducia e, ahimè, pazienza.
Innanzitutto realismo: quand’anche le nostre rivendicazioni fossero tutte sacrosante, resterebbe vero che non tutte le offerte saranno in pronta consegna. Per alcune ci sarà da aspettare generazioni. Magari secoli. La storia conosce anche i tempi lunghi. Le abitudini, le tradizioni sono sedimentazioni di secoli e millenni di storia. Impossibile rimuoverle tutte nel giro di pochi anni; conviene rassegnarci: i diritti sono come i frutti, non tutti maturano allo stesso tempo e ognuno ha la sua stagione. E sul nostro pianeta le quattro stagioni sono a cicli variabili e opposti fra l’emisfero nord e l’emisfero sud. E sullo stesso emisfero le stagioni hanno durate e tempi diversi. Così i contrasti saranno inevitabili e potranno durare anche molto a lungo. Lo stesso pare essere per i diritti. Una volta le distanze bastavano a mettere la sordina ai contrasti. Oggi tutto il mondo vive in contemporanea. Non però le stagioni. Tanto meno la psiche e le culture umane.
Bisognerà armarsi di pazienza. E intanto che i tempi delle diverse stagioni maturano, conviene essere prudenti. Un po’ di sano senso della misura e dell’opportunità certamente non guastano. Se è vero che la molla del progresso civile è la contestazione dell’equilibrio esistente, è anche vero che, in attesa di regole nuove, la regola vecchia sarà sempre migliore di nessuna regola. Quanto ai profeti si dotino di una bella vocazione al martirio. Che se questa vocazione ti manca, meglio che cambi mestiere.

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