Dov’era Dio? E la riflessione continua


Già, dov’era Dio quando quei dieci uomini, ad Auschwitz venivano impiccati e un frate francescano, Massimiliano Kolbe, si offrì per prendere il posto di uno di loro, perché lui non aveva né moglie né bambini ad aspettarlo a casa?
È forse questa la domanda senza risposta che fa concludere al figlio di quell’uomo in preda alla dissenteria, che di fronte all’inutilità dei suoi sforzi per “onorare” il suo vecchio padre in preda a una devastante incontinenza intestinale, vede comparire sul volto sublime del Figlio dell’Uomo la scritta dissacrante e amara «Tu “non” sei il mio pastore»?
A me pare che i due casi si somiglino molto. Quel “non” che appare sulla dolcissima frase derivata del salmo 2,1 «il Signore è il mio pastore», è come una mina nascosta su un prato dove finora avevi sempre potuto passeggiare sicuri.
Proprio in quel “non” è tutto il “caso” della discussa pièce di Romeo Castellucci. Ed è proprio su quel “non” che vorrei centrare oggi la mia riflessione.
E intanto: conoscete qualcosa di più ambiguo dell’idea e dell’immagine di “pastore”?
Abituati come siamo all’idea del presepio, poche figure e poche parole ci sembrano più familiari e rassicuranti di questa: pastore.
Li vediamo lì, adoranti davanti alla grotta o alla capanna, con le pecorelle accanto, con l’agnello in spalla, nella bisaccia a tracolla i doni per la madre e il suo bambino. Gli stessi angeli, nel dare al mondo l’annuncio della nascita del Redentore, pensano prima di tutti a loro. Questo nel mito.
Ma nella realtà i pastori erano una delle classi più screditate e malviste nella Giudea di Gesù. La loro immagine di gente senza fissa dimora era spesso associata a quella dei ladri, dei mercenari, forse degli assassini da cui le donne facevano bene a tenersi lontane, tenendo ben chiuse le porte di casa.
Ebbene: proprio quelle due scritte in successione, “tu sei il mio pastore”, “tu ‘non’ sei il mio pastore” danno l’esatta dimensione della tragedia umana, eternamente oscillante fra la fiducia e la delusione, fra la speranza e la disperazione.
Alla base del tutto la fragilità, la debolezza della creatura umana e quella lacerante consapevolezza dello scarto abissale fra le sue aspirazioni e l’insufficienza dei suoi mezzi: proprio quello scarto gli sarà costante causa di frustrazione e di sofferenza. Al suo desiderio di godere del mondo, ecco che il mondo gli si rivela una latrina; vorrebbe tanto la bellezza, ed ecco che la vita gli offre solo il corpo sfatto d’un vecchio che lui ama sì, ma che non può non fargli schifo; amerebbe lavorare a qualcosa di utile ed ecco che il suo tempo se ne va tutto a lavare e rilavare un corpo che perde escrementi come una fontana dal rubinetto rotto: e tu, Divino Pastore che mi campeggi, immenso, davanti agli occhi schifati, non senti che puzza? O forse tu non la senti? A me fa venire il voltastomaco.
Pure io ti amo e tu lo sai bene e te lo dimostro baciandoti. Ma Tu niente, niente, niente! Allora Ti dirò quello che secondo me ti meriti: no «tu non sei il mio pastore», perché se davvero lo fossi, faresti qualcosa per aiutarmi, per venirmi incontro.
Ora trasferiamoci ad Auschwitz, dove dovremo moltiplicare tutto per milioni di volte. Erano ebrei, rom, sinti (zingari), comunisti, omosessuali, e sai quante altre deviazioni ancora? Ad Auschwitz ogni momento era buono per morire: subito dopo l’arrivo, avvelenati nelle camere a gas sotto docce che esalavano morte dei loro fori; o dopo settimane (i più deboli), o anni di sofferenze e di stenti inauditi (i più forti); o decimati (in senso tecnico: scelti a caso, uno ogni dieci) e fucilati o impiccati; o raggiunti dalle raffiche di mitra nei tentativi di evasione; o sotto i colpi dei bastoni degli aguzzini; o sotto gli atroci esperimenti del dott. Mengele (una delle più sinistre figure della storia); o semplicemente di fame, o di freddo, là dove ci si sbranava per pochi grammi di pane; dove si affrontavano i -20°, i -30° di freddo con giusto qualche straccio addosso.
Uno, un milione, sei milioni: che differenza c’è? Per noi uomini sì, per Dio no. O almeno non dovrebbe. Perché se è certamente ragionevole che io, fra il salvarne uno e salvarne cento, dovrò giustamente decidere di salvare i cento e lasciar morire l’uno, questo non ha senso per Dio, che potrebbe benissimo salvarli tutti e centouno. Se è vero che lui è onnipotente.
Perché come possiamo credere che chi ha potuto creare dal nulla l’intero universo, non possa poi salvare da una morte ingiusta qualche milione di innocenti? Purtroppo però, un Dio così, che interviene come e quando vuole, somiglia assai più ai capricciosi dei dell’Olimpo che al Dio di Gesù Cristo.
Ma c’è un ma!
E se non fosse vero affatto che Dio sia onnipotente? Perché ci sono cose, nell’attuale ordine delle cose, che sembra lecito pensare che Dio non possa fare, essendo la sua onnipotenza limitata dalla libertà che lui stesso ha voluto dare alle sue creature. Contro quella libertà Dio non può andare.
Liberi: così li ha voluti lui, perché liberamente potessero corrispondere al suo amore. Ora non può più obbligarli a obbedirgli e tanto meno ad amarlo. Del resto tutta la storia dell’uomo e delle sue tragedie hanno avuto inizio da un “peccato originale”, da una scelta che è veramente la madre di tutte le tragedie dell’uomo: dal suo voler essere “come Dio” (Gen 3,5), potendo decidere lui, da solo, cos’è bene e cos’è male, senza sentirselo dire da altri, neppure da Dio.
Vuoi mettere la vertigine del potere assoluto? La vertigine del “Grande Dittatore” che gioca col mondo sulla punta delle dita? Tu pregalo pure il tuo Dio, ma lui è già morto: l’uomo l’ha ucciso. Orfano di Dio, cosa potrà mai fare ora l’uomo, l’uomo di fede? Potrà mai risuscitarlo?
Mi chiedevo proprio questo, e m’è venuto di pensare: e se fosse proprio questa la grande sfida del cristiano del dopo-Nietzsche? Fare lui, l’uomo, con Dio, quello che Gesù fece col figlio della vedova di Nain: «Dio, te lo dico io, alzati», e riprendi a parlare! Tu resta pure dove sei: saremo noi la tua bocca, i tuoi piedi, le tue mani, il tuo cuore quaggiù. Le nostre saranno le stesse parole che ci dicevi tu, quando eri ancora fra noi. Saremo noi, per il mondo del Terzo Millennio, quello che tu fosti per noi nei due primi millenni dopo Cristo. Faremo noi quello che faresti tu, diremo noi le stesse cose che facevi tu, guariremo noi quelli che allora guarivi tu (se non potremo farlo con la nostra parola, lo faremo con la nostra tecnologia, ma i risultati saranno più o meno gli stessi), perdoneremo noi i peccati che rendono paralitici gli uomini impedendo loro di compiere cose grandi, risusciteremo noi, con il nostro amore tutti i cuori che l’odio, l’egoismo, e soprattutto l’insaziabile fame del dio mammona ha prosciugato inaridito e ucciso.
Allora avverrà! Sbigottiti, gli uomini guarderanno le bocche dei loro sepolcri e le troveranno aperte, e vuote le tombe; le strade saranno piene di cristi(ani) risuscitati che parleranno d’amore e di giustizia, di lieta povertà e di umile ricchezza e Dio sarà tutto in tutti.
Quando avverrà tutto questo? Mai naturalmente. E anche sempre: ogni giorno, già da ora, ogni volta che un vero discepolo di Cristo parlerà e agirà come Lui parlava e agiva. Noi come Lui, noi per Lui, noi a far le veci di Lui. Ogni volta che uno di noi lo crederà possibile e si impegnerà a renderlo possibile. Quando? Da oggi, e poi domani e sempre. Ogni volta che sulla terra ci sarà uno che ha bisogno di Lui. Perché dove siamo noi, sia anche Lui.
A portarglielo saremo noi.