È allarme rosso: nel 2011 i matrimoni in municipio, nell’Italia del Nord, hanno superato quelli celebrati in chiesa. Per la prima volta nella storia, almeno da quando, nel mondo cristiano, si è convenuto che celebrare il matrimonio in chiesa fosse da considerare una regola per tutti i cristiani. Grosso modo, dal sec. X in poi.
Prima come ci si sposava e dove? Non c’era una regola fissa, ma se una ne vogliamo proprio stabilire, la dovremo cercare piuttosto nella casa della sposa. Era lì che avveniva lo scambio delle promesse e degli impegni, la firma del contratto nuziale, la consegna della sposa allo sposo, il pagamento della dote. Era lì che avveniva il pranzo nuziale cui sarebbe seguita, la sera stessa, e forse per più giorni, la cena e la festa in casa dello sposo. Chi ha la mia età ricorderà il faticoso rituale nuziale che prevedeva nello stesso giorno il trasferimento degli sposi dalle rispettive abitazioni alla chiesa, poi tutti alla casa della sposa per il pranzo, poi alla casa dello sposo per la cena e per la prima notte di matrimonio. In quella casa, di regola, si sarebbe stabilita la nuova famiglia.
Per molti secoli il rito religioso previde solo un rito di benedizione degli sposi nella casa dello sposo, prima che gli sposi si ritirassero nella stanza nuziale. Nei paesi franchi i due sposi la ricevevano stando seduti sul letto nuziale.
Solo col sec. X, si cominciò ad andare a celebrare almeno una parte del rito nuziale in chiesa. Si cominciò col benedirli sulla porta della chiesa, né dentro né fuori, proprio sull’ingresso.
Ancora più indietro nel tempo, il prete – o il vescovo – arrivava a cose fatte, alla sera, per la benedizione prima di coricarsi. La presenza, o almeno il consenso del vescovo era considerato cosa buona e raccomandabile (Ignazio di Antiochia, già alla fine del sec. I).
Per tutto il primo millennio per il matrimonio bastò lo scambio del consenso nella casa della sposa, il pagamento della dote, lo scambio dei doni e più tardi (sec.VI-VII) degli anelli, davanti ai testimoni.
Che all’inizio della storia cristiana non ci fosse altro rito lo sappiamo per certo da un antichissimo, autorevole documento cristiano, la Lettera a Diognèto, che ci informa sul fatto che i cristiani si sposavano secondo il costume del luogo, senza differenze (metà sec. II).
Stando così le cose, la notizia del sorpasso dei matrimoni civili in Italia non dovrebbe allarmarci più di tanto, trattandosi solo di un ritorno alle origini. Tanto più che in quelle condizioni la Chiesa seppe conquistare il mondo.
Perché è un fatto: quando la Chiesa era povera di tutto seppe convertire il mondo: che il potere le abbia fatto più male che bene?
In realtà il testo citato dalla Lettera a Diognèto, è di una modernità stupefacente e potrebbe ben essere indicato come la magna charta di un cristianesimo davvero fedele alla propria vocazione originaria e al tempo stesso rispettoso della più genuina e matura laicità dello Stato e della società civile. Esso ci offre tutto ciò che si richiede per far fronte alla crisi della fede e della Chiesa dei nostri giorni e per resistere a un laicismo che spesso è l’esatta antitesi della sana laicità di una moderna società civile. In sequenza le linee essenziali del testo e del pensiero di questo brano straordinario.
Colpisce certamente l’assoluta coerenza di queste parole con ciò che lo spirito moderno chiede alla Chiesa e ai cristiani del nostro tempo: vien da pensare che nessuno ci darebbe fastidio se noi non pretendessimo di imporre agli altri i dettami della nostra fede. Se ci convincessimo che la salvezza può solo venir offerta, mai imposta; che un patto di buon vicinato e di collaborazione pacifica nel comune impegno della costruzione di una società più giusta ci otterrebbe senz’altro un maggior credito e un maggiore rispetto e forse ci risulterebbe più facile difendere i nostri principi quando altri volessero metterli in discussione. La Chiesa si guadagnerebbe certo maggiori consensi se facesse proprio il grande principio nel quale si riconoscono tutti i veri laici moderni (chiaro che gli anti-clericali si appropriano di un titolo non loro quando si definiscono laici: il vero laico, così come il vero cattolico, non può essere mai un anti; entrambi dovrebbero essere solo dei pro-positori: gente che propone modelli nei quali ognuno può o riconoscersi o liberamente dissentirne. Sarà poi il metodo democratico a stabilire chi dovrà legiferare, ricordandosi sempre, tutti, che in democrazia i voti si contano, non si pesano. Un limite del sistema? Può darsi, ma ogni correttivo sarebbe peggiore. Lo stesso grande principio nel quale tutti dicono di riconoscersi, «libera Chiesa in libero Stato» (assai superficialmente spacciato per cavouriano) compare dapprima in due politici di fede cristiana e liberale: nel cattolico francese Charles de Montalembert esso suona Chiesa libera in libera patria, e nel calvinista, pure francese, Alexandre Vinet esso suona al plurale: libere chiese in libero Stato (o in liberi Stati): sono essi i lontani padri del vero liberalismo cristiano di cui in Italia i grandi campioni restano Don Sturzo e De Gasperi.
A questo liberalismo dovrebbe ispirarsi la Chiesa cattolica, oggi: del resto a lei incombe solo il dovere di predicare una salvezza, non di imporla; essa procuri certo che ai cattolici non sia tolta la libertà di seguire i dettami della loro fede, ma non pretenda di imporli agli altri. Il profeta ha il dovere di predicare e magari di morire, mai di imporre e di ammazzare chi non obbedisce. Cosa che purtroppo è avvenuto troppe volte nella storia. Confrontarsi serve sempre. Fare la guerra mai.