Dopo diciotto giorni di rivolta del popolo, anche l’ultimo Faraone è caduto. È dovuto scendere dal suo trono, e la sua statua è stata rimossa dal suo piedistallo.
Ora il Cairo, come tutto il Paese del resto, vive sospeso fra speranza e timore, fra entusiasmo e apprensione. Si sa cosa si è lasciato, anzi cosa è stato abbattuto; più difficile è sapere cosa seguirà. Ma poiché mai nulla di nuovo nasce senza qualcosa di vecchio abbia a morire, l’abbattimento del vecchio diventa necessario ogni qualvolta il vecchio rinunci o a rinnovarsi da solo, o a farsi da parte da solo.
In questi giorni guardavo con ammirazione e invidia – sì invidia, e tanta! – quei giovani, quelle donne velate e vestite di nero, quegli uomini fatti (maturi o anche anziani) che correvano nelle vie, nelle piazze, sfidando le manganellate e gli spari delle forze della polizia, con centinaia di feriti, e più di cento morti: tutti animati da uno stesso proposito, spinti dalla stessa speranza: libertà, democrazia, tolleranza, libere elezioni.
Ora l’hanno spuntata. Non è ancora né democrazia né libertà: è solo la speranza di averle, l’una e l’altra, a portata di mano. Nasceranno, l’una e l’altra, solo se una buona levatrice, saprà farla sopravvivere a un parto certo difficile. Quante volte le scene di tripudio popolare dopo una rivoluzione finita con la vittoria degli insorti, si sono trasformate in scene di lutto? La rivoluzione d’ottobre, la presa del palazzo d’inverno, l’esecuzione di tutta la famiglia dello Czar, han dato luogo all’avvento del comunismo e al lunghissimo inverno sovietico (mica ancora del tutto tramontato, malgrado le apparenze!). E, più vicino a noi, alla deposizione dello Scià di Persia è succeduto Komeini e il potere degli ayatollah e, oggi, l’incubo di Ahmadinejad: chi può dire cos’ era peggio fra il prima e il dopo, fra un regime corrotto e un regime teocratico che fa del potere il braccio armato dell’intransigenza religiosa? Non di rado si è dovuto prendere atto che spesso si è caduti dalla padella sulla brace: un arrosto invece del fritto, ma la fine per la vittima è stata la stessa: sempre divorata è stata!
Ma intanto l’Egitto si gode il suo tempo di esaltazione e di speranza: e noi gli facciamo tutti i migliori auguri, perché non tutte le rivoluzioni finiscono male: la fine del fascismo in Italia, del nazismo in Germania, le varie rivoluzioni di velluto nell’Est europeo hanno prodotto frutti duraturi che possiamo raccogliere ancora.
Li guardavo e li invidiavo quelle donne, quegli uomini barbuti, quei giovani coraggiosi e mi dicevo: quelli stanno facendo la Storia. Quelli, e non quelli come me, che se ne stanno a far tifo per gli uni o per gli altri comodamente seduti davanti al televisore; quelli, e non chi resta alla finestra a guardare: che però, se almeno agitano bandiere, battono le mani, gridano evviva, fanno Storia anche loro!
Ma chi resta dietro le finestre chiuse, serrate, a non vedere, a non essere visti, potranno solo rimpiangere di non esserci stati, loro, mentre “si faceva la Storia”! A loro si applicheranno le dure parole di Alessandro Manzoni: «…che ai suoi figli narrandole un giorno, / dovrà dir, sospirando: – io non c’era –» (Marzo 1821).
E mi domando, con molta mestizia nel cuore: e io che avrei fatto? Mi ci saprei vedere là in mezzo, a cantare, a gridare, a urlare, a lanciare slogans, ad agitare braccia, a ballare, a motteggiare a far sberleffi, a lanciare parole come sassi, ad alzare striscioni, ad agitare fazzoletti e ad esibire scritte sul petto, sulle spalle, a colorarmi la faccia e i capelli con i colori della bandiera nazionale? E devo amaramente rispondermi che no, molto probabilmente la mia risposta sarebbe: “non ne sono capace, non l’ho mai fatto in vita mia e di tutta la mia corporeità e fisicità ho saputo far uso solo delle mani e delle dita per ticchettare sui tasti d’una macchina da scrivere prima, del mio computer poi: l’unico modo che io conosco per manifestare agli altri il mio pensiero, le mie preferenze, le mie passioni, ma nulla di più. Magro bilancio di un’intera vita.
O forse no, adesso che ci penso; forse non è tutto ciò che posso fare: perché dimenticavo che qualcosa mi resta, anche a me, eccome se mi resta! Anzi di altrettanto importante delle marce e delle manifestazioni: la preghiera! Sì, proprio, la PREGHIERA! E non ridete per favore, perché se uno crede nel Dio che fa la storia per mezzo degli uomini, nel «Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola» (ancora Manzoni, Il Cinque Maggio), allora devo dire che neppure un imbranato come me può dirsi del tutto inerme, se ha la preghiera da opporre al tiranno, all’usurpatore: un’arma “da brandire” come la spada in mano agli Angeli del giudizio.
Certo, la mia preghiera per invocare dal Padre di tutti gli oppressi, degli schiavi, degli sfruttati; dal Dio consolatore e “vendicatore” di tutti i “manipolati”, i sedotti e delle vittime dell’incantamento: di tutti quelli insomma che inneggiano al Grande Idolo che li divora, al Grande Seduttore che li addormenta e che li fa sognare finché non si ridesteranno tra le rovine dei sogni e delle illusioni cui avevano dato la loro fede. Alcuni nomi di questi li ho già fatti, altri li metteranno i miei Lettori, e non sarà difficile trovarli.
Ecco per questi io prego, ormai da alcuni mesi, quasi ogni giorno (o proprio tutti i giorni), perché il Dio-di-verità li sconfessi, li denudi agli occhi dei loro fedeli e ne riveli le ambizioni nascoste celate sotto le parole melliflue, le roboanti promesse e le perverse strategie. E con me faccio pregare chi prega con me, senza far nomi, così che ognuno ci metta chi gli pare. E proprio in questi due ultimi mesi già due ne sono caduti, nella vicina Africa mediterranea. Né mi fermerò qui. Era l’arma dei Profeti d’Israele che andavano davanti ai re ad annunziare loro che l’ora del giudizio era scoccata per loro: così Natan, per ben due volte, a Saul prima, a David poi, si presentò ai due sovrani annunciando il castigo di Dio, per il loro peccato. Così il veggente dell’Apocalisse si rivolgeva anche agli Angeli delle Chiese del tempo (i vescovi). Agli uni e agli altri l’ammonizione era la stessa: convertitevi e fate penitenza, se non volete che il giudizio di Dio si abbatta su di voi. Perché dopo l’ammonizione, il castigo sarà più pesante, se non ci sarà conversione.
P.S. Immagino le risatine e le proteste: ma guarda questo che crede che Mubarak e Ben Alì sono caduti perché è lui che l’ha chiesto al Padreterno.
Tranquilli: non ci penso proprio. Anche se non potrei neppure escluderlo, visto che già una volta Dio si era servito di un’asina, quella di Balaam, per trasmettere agli umani una profezia. Sarebbe dunque la seconda volta. Ma c’è qualcosa di più.
Non penso proprio che Dio stia a sentire le mie richieste. Cerco io piuttosto di interpretare i suoi segni. E queste insurrezioni non sono solo fatti storici ma, per chi ha fede, possono essere benissimo il segno che la misura è colma. Un solo esempio, dall’Apocalisse di Giovanni.
«All’Angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: “Tu dici di essere ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla”, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo… Ti consiglio di comperare…vesti bianche per coprirti e nascondere la tua vergognosa nudità… Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo… Ecco io sto alla tua porta e busso» (Ap 2,17-20).
Queste cose non le ho scritte io. Io mi limito a leggerle e a leggere la storia alla loro luce.
E se fosse proprio il giorno del giudizio?
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