Serve ancora pregare? Serve, serve!


Scrivere o non scrivere? Questo è il problema, mi interrogavo, inquieto, e con l’ispirazione a secco dopo la maratona di feste, di messe, di prediche e di preghiere di questi giorni di Natale. Incerto, ho ripreso in mano un mazzo di giornali rimasti lì, mogi mogi, mortificati come un cane a cui rifiuti le carezze a cui l’hai abituato: cose di cui si può fare a meno quando cose più importanti incalzano. E così mi sono imbattuto in un articolo dal titolo intrigante: Io ti prego Dio del cielo da dietro queste sbarre. Senza neppure guardar il nome dell’autore ho cominciato a scorrerlo.
Mi è apparso subito chiaro, che l’autore doveva conoscere bene ciò di cui stava parlando; ciò malgrado ho continuato a leggere senza cercarne il nome almeno per i due terzi dell’articolo. Un nome illustre: Vito Mancuso, teologo di fama, in forza al quotidiano laRepubblica. La data il 31 dicembre scorso; un brano d’una sua prefazione a un libro che raccoglie le preghiere di gente che il cielo lo vede perlopiù a quadri o a strisce, da dietro l’inferriata d’una cella carceraria.
Ma non è dell’articolo di Mancuso che voglio parlare ma di ciò che quell’articolo ha risvegliato in me, l’interesse e anzi la curiosità di guardarmi dentro mentre prego, per interrogarmi sul mio modo di pregare e su ciò che la preghiera è per me, di come m’immagino che sarebbe la mia vita senza più la preghiera, sul gran buio che si farebbe nel cielo della mia anima se si chiudesse, peggio ancora, se io stesso chiudessi quella finestra sul sole divino che fin qui ha illuminato tutto, ha dato calore a tutto e bellezza a tutto e senso a tutto! Perché se è ancora vero che «di sera tutti i gatti sono bigi» come per la Salomé della Scugnizza di Lombardo e Costa, è ancor più vero che di notte tutti i gatti sono neri, sì che, se non arriva il sonno a confortarti, saresti un infelice se dentro di te non arde una luce (un amore per esempio) che ridia a tutto il suo colore, quello che le tenebre avevano cancellato e coperto con il loro nero mantello.
So già l’obiezione: non è detto che il migliore debba necessariamente esistere solo perché sarebbe meglio che ci fosse. Il male esiste non solo per nostro volere, ma per una sorta di sua necessità che sfugge a ogni nostro volere e controllo. Il male è, esiste perché è l’altra faccia del bene, e tutto ciò che esiste e che è bene per me è, o può essere, male per qualcun altro, e l’altro, che pure cerca solo il suo bene e non necessariamente il mio male, può essere male per me proprio nel momento in cui realizza ciò che è bene per lui. Il virus che ha distrutto il mio fegato non voleva distruggermi il fegato, voleva solo compiere il suo ciclo vitale, come ogni altro vivente fa quando uccide, cuoce, mangia e in tutto questo è anello d’una catena che di tutti questi passaggi ha bisogno, che se anche se ne inceppa uno solo, sono guai seri.
E poiché a nessun uomo è dato passare per un paesaggio sempre assolato, perché anche ai due poli della terra, dove pure il giorno e la notte sono lunghi allo stesso modo (non sempre è giorno e non sempre è notte, ma sei mesi avranno per sé il pallido e anemico sole polare e altrettanti avranno la triste, gelatinosa notte che gli orsi, beati loro, passeranno in letargo, mentre l’uomo continuerà a doversi dar da fare per nutrirsi e nutrire i suoi figli), così è dell’anima umana, nel suo rapporto con Colui che essa chiama suo Dio e Signore.
Mirabile è la pagina di Sant’Agostino nelle sue Confessioni, quando tratteggia un gioco quasi da amor cortese fra il Creatore e la sua creatura. Provate a sostituire i termini creatore e creatura con quelli cari ai menestrelli e ai poeti del dolce stil novo.
«Tu ci hai creati per te e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in te. Concedimi, o Signore, di conoscere e comprendere se prima si deve invocarti o lodarti, se prima conoscerti o invocarti. Ma chi ti può invocare se non ti conosce? Chi non conosce, non sa a chi dirigere la sua invocazione. Ma, per caso, non sarà necessario invocarti per conoscerti? Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? Come potranno credere, senza averne sentito parlare? (Rm 10, 14). “Loderanno il Signore quanti lo cercano” (Sal 21, 27), poiché, cercandolo, lo troveranno e, trovandolo, lo loderanno. Ma come invocherò il mio Dio e Signore mio? Certo lo chiamerò in me stesso, quando lo invocherò». Come non sentire in queste parole un’eco del Cantico dei cantici, quel gioco d’amore fra chi cerca e chi non si lascia trovare affinché aumenti il desiderio sia in chi cerca sia in in chi si lascia cercare? Così nasce e si sviluppa e cresce l’amore nel gioco d’amore, gioco nel quale ricerca e nascondiglio sono parti e momenti ugualmente essenziali. Tale, sempre, è la preghiera dei mistici, ugualmente beatificante e crocifiggente, stando alla testimonianza di chi ne ha fatto la “tremenda” esperienza. Tremenda perché è sempre terribile «cadere nelle mani del Dio vivente» (Ebr 10,31), sia che ti accarezzino, sia che mettano alla prova la forza del tuo amore.
Che dirò dunque della preghiera, dopo queste premesse? Perché lo status quaestionis è assolutamente chiaro: chi ha ragione: colui che dice che la preghiera è la pretesa di voler affrontare una violenta polmonite con un po’ d’oppio, con una camomilla, o massaggiandosi il petto con un pannicello caldo, o chi dice che la preghiera è la dimensione più vera dell’uomo che ha incontrato Dio, ricevendone in cambio e in premio proprio questa dimensione trans-umana, oltre l’umano, prossima al divino? Chi pensa in questo secondo modo ritiene che chi fu fatto a immagine del Dio creatore, con la preghiera riesce ad attingere alla sorgente dell’unità, fino a diventare una sola cosa con lui, fino a trasformare la somiglianza in una sorta di identificazione che, se anche non attinge l’identità della sostanza, si disseta abbondantemente alla sorgente dell’unificazione tra l’amato e l’amante.
Ecco questa vorrebbe essere la chiave del mio discorso, per quello che può valere: perché se l’identificazione con Dio ci rimane ineluttabilmente preclusa, quella del divenire una sola cosa con Lui sarà sempre alla nostra portata, proprio perché esattamente per questo esiste l’amore: per fare “dei due una sola carne”. E se questo vale solo fra le creature (carne), l’unità di spirito e di cuore vale anche fra il Creatore e la sua creatura. E perché noi possiamo realizzare questo prodigio egli ci ha tracciato la strada.
Questa strada è la preghiera: questo soffio dello Spirito, questo respiro dell’anima, questo miracolo dell’amore unificante. Credo che sia del tutto chiaro che non sto parlando del padreavegloria per l’acquisto delle indulgenze e nemmeno di quelli dati per penitenza dopo la confessione dei peccati. Sto parlando della preghiera che sa fare a meno delle parole perché a dirsi tutto basta la misteriosa voce dello Spirito Santo e il sospiro o il gemito del cuore umano perduto in Dio. E non si pensi a Teresa d’Avila, ad Angela da Foligno o a Francesco sulla Verna che riceve le stimmate. Penso al mio povero cuore e alla mia povera testa che davanti a Gesù tante volte s’addormenta o evade verso i pensieri frusti del quotidiano, ma ogni volta si sforza di ritornare a lui: parole come carezze, sguardi come frecce infuocate, sospiri come gemiti di chi soffre di mal d’amore. Un unione che promette d’essere più forte di tutte le prove della vita e della morte stessa. Perché a tendermi la mano nel supremo momento ci sarà ancora Lui. E la sua mano non mollerà la presa finché non mi avrà attratto a Lui nella sua gloria.

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