E il popolo disse: basta circo, dateci pane


Sono debitore dell’idea di quest’articolo e del suo titolo, a Gabriele Romagnoli, che su laRepubblica di oggi, sabato 22 giugno, commentando i fatti di questi giorni in Brasile, annota che «lo splendore della storia sta nel fatto che a un certo punto decide di fregarsene anche di sé stessa e cambia corso. Quel che per secoli era valso come legge diventa un coriandolo, gli anestetici si trasformano in eccitanti, i luoghi comuni in piazze dell’inedito». Belle entrambe le immagini, quella del coriandolo e quella delle piazze dell’inedito.
Belle e soprattutto vere, di quella verità che non teme smentite. Smentite che poi magari verranno, a volte anche presto, e rabbiose, e scandalizzate. Ci verrà detto che noi confondiamo una chiassata di gente frustrata per un movimento di popolo, e il grido di appena un milione e duecentomila fra studenti, casalinghe e operai per un 1789, l’anno in cui l’arcigna Bastiglia cadde sotto i colpi di piccone che dettero il via alla Rivoluzione Francese.
Lungi da me il sopravvalutare, ma attenti anche a non sottovalutare. Perché quello che sta avvenendo in Brasile può essere la famosa prima volta che non manca mai (in verità il proverbio funziona meglio in positivo: c’è sempre una prima volta), e tutta la medicina contemporanea, all’unisono, ci avverte che prevenire è meglio che curare e che il non ammalarsi è sempre meglio del guarire.
D’accordo, non è più il nostro caso: noi ammalati lo siamo da un pezzo, forse da sempre; forse malati ci siamo anche nati, e guarire da una tara ereditaria è notoriamente difficile.
Guardate l’imbarbarimento della RAI (per restare nello sport): quando mai, una volta, un telegiornale o un giornale radio avrebbero subito l’onta del rinvio per la concorrenza d’una partita di calcio? Neanche per la Nazionale. Ora te lo spostano anche per un’amichevole dell’under 21. E il peggio è che oggi, senza calcio, c’è solo il venerdì. Nessun altro giorno è al sicuro.
Può darsi che qualcuno fra i miei lettori si stia domando fra sé e sé: “Ma perché, che è successo in Brasile?”. Ebbene è successo qualcosa che somiglia all’inaudito, all’impensabile: che i Brasiliani del favoloso indimenticabile trio Didì Vava Pelè e di infiniti altri campioni, i maestri del calcio più allegro e spumeggiante del mondo sono scesi in piazza a protestare contro un governo che prevede di spendere cifre faraoniche per adeguare le strutture in vista del prossimo mondiale di calcio e intanto lascia senza risorse alcuni settori nevralgici per ogni società evoluta: sanità, scuola, trasporti, case popolari…
Era ora! Davvero era ora che qualcuno gridasse contro lo scandalo di un mondo dove euro e dollari, a milioni, corrono come i torrenti di montagna, quando le nevi, sciogliendosi, più che scendere precipitano tra forre e balzi e cascatelle e piccole rapide, finché la raggiunta pianura non provvederà a regolarne il corso riunendole tutte nell’unità d’un corso d’acqua che solo a quel punto meriterà il nome di fiume.
Ora in Brasile (che presta la prima lettera all’acronimo BRICS, le iniziali dei cinque Paesi che oggi vantano i maggiori incrementi in termini di PIL al mondo (Russia India Cina Sudafrica gli altri) finalmente si protesta perché gran parte dei frutti di quell’immenso sforzo creativo e produttivo del Paese si vorrebbe spenderla in opere faraoniche destinate a finire nel nulla: cifre ingentissime – che basterebbero a dare una casa dignitosa a interi eserciti di diseredati che oggi marciscono fra i topi e i liquami senza fogne delle favelas – buttate in colossali impianti sportivi destinati a non servire più a niente, perché riconvertirli in servizi civili, costerebbe assai più di quanto costerebbe il costruirli. Ne sa qualcosa la Grecia dopo le olimpiadi del 2004: una montagna franata sui suoi piedi, una botta dalla quale non ha più potuto riprendersi.
E non è stata la sola: altre nazioni stanno ancora pagando, i debiti e le conseguenze di analoghe scelte. Rimarrà un merito di Mario Monti l’aver bloccato le manovre dell’ex sindaco di Roma Alemanno per la candidatura di Roma alle olimpiadi del 2020. Una scelta di responsabilità disse di quella decisione Monti. Una grande opportunità per la Città Eterna la considerava Alemanno; una “grande opportunità per la casta al potere” lo corregge Romagnoli nel suo articolo, sottolineando che l’ex sindaco teneva numerosa famiglia (famiglia politica è chiaro).
Peccato che queste cose non accadano mai da noi. Accadono nel Paese dove i campioni crescono come i funghi nei boschi, dovunque uno spazio libero e pianeggiante consenta ai bambini di dialogare con una bala o un balão davanti a una chiesa o negli spiazzi fra una baracca e l’altra, a piedi nudi e con scarpe di s-fortuna, dove la palla è ancora solo un gioco che solo in seguito e solo per alcuni potrà diventare un lavoro e talvolta davvero sì una “fortuna”.
Da noi ormai il calcio è spesso avvelenato dall’ambizione dei genitori che i bambini li mandano a giocare nelle giovanili già sperando che un giorno ne possa venir fuori un Messi o almeno almeno un Del Piero; che a sei-sette anni hanno già il corredo completo del calciatore professionista del quale in seguito farà propri anche tutti i vizi e solo qualche volta le virtù; al quale intanto si caveranno tutte le voglie, ma raramente si avrà il coraggio di chiedere applicazione, sacrifici e rispetto per le strutture, per l’impianto, per il pubblico e soprattutto per i rivali.
Sono gli stessi ragazzi che poi andando a scuola accamperanno assai più pretese che rispetto per la scuola, per i docenti, per i compagni e le compagne, per i libri, per i banchi, per i muri; che diffonderanno via rete le loro bravate fra i banchi o nei bagni di scuola e le angherie e le vigliaccherie ai più deboli e alle ragazzine che hanno il solo torto di essere femmine e soprattutto fisicamente più deboli.
Ecco perché la notizia di folle ingenti di giovani, operai e impiegati che scendono in strada o in piazza a chiedere che i soldi di tutti sia spesi solo per le cose serie della vita e della società non può che riempirci di speranza. Certo il Brasile è lontano da noi, ma oltre alle tante cose pessime che ci fanno vedere, il Web e i media hanno anche la virtù di farci vedere cose che fanno bene al cuore. E questa è una di quelle.
Poi, quando mi sto quasi per convincermi che sì, si può ancora sperare in un domani migliore, mi tornano in mente notizie come quest’altre: 10, 20, 30, 40 milioni di euro per un calciatore, per 1, 2, 3 anni, naturalmente esentasse, naturalmente con villa a carico delle società: e allora torno a disperare. Anche perché si sa che tali scelte non rispondono solo a passione sportiva o a preoccupazioni di bilancio, ma anche a calcoli politici e di potere ben precisi.
E tutto questo aggravato dal risaputo consenso che queste follie gli procurano, perché quando gli avrai dato il campione gli perdoneranno tante altre follie, personali, aziendali e perché no politiche. Perché sai bene che un campionato vinto (e più ancora una coppa dei campioni) ti farà perdonare tante cose.
In Italia siamo ancora a questo punto. Così che siamo ancora costretti ad aspettare Falcao.