La Difficile Virtù Dell’Obbedienza


 

Ha ancora un senso parlare della virtù dell’obbedienza dopo la famosa Lettera ai cappellani militari di don Lorenzo Milani? Probabilmente sì. Anzi, essa è ancor più attuale dopo l’avvento di Francesco sulla scena della Chiesa universale, venuto “quasi dalla fine del mondo” a miracol mostrare (Dante Alighieri).

Un fatto, questo dell’elezione del papa italoargentino, talmente straordinario che segnerà la storia della Chiesa molto più di quanto non l’abbia fatto la pur gigantesca figura di papa Wojtyla.

Intanto questa elezione avviene dopo una delle più gravi crisi del grande e già potentissimo ordine di Sant’Ignazio di Loyola, crisi resa più acuta dalla dolorosa vicenda dell’amatissimo e contestatissimo Preposito generale Padre Pedro Arrupe, assai inviso a Giovanni Paolo II a causa di quel fumus (sospetto) di una sua simpatia e consonanza con la teologia della liberazione. Né poteva essere altrimenti: per chi aveva conosciuto dall’interno tutte le limitazioni e gli ostacoli che il socialismo reale opponeva alle libertà civili e soprattutto religiose dell’allora cattolicissimo popolo polacco, ogni sospetta simpatia per quel tipo di visione del mondo e della realtà, non poteva apparire altro che un pericolosissimo cedimento al fascino di una funesta illusione.

A questo si aggiungano, per tornare ai gesuiti, le ferite, gravissime, inferte alla già potentissima, contestatissima, perseguitatissima Compagnia che era stata, per secoli, al tempo stesso il più ammirato e il più odiato degli ordini religiosi proprio a causa della sua straripante influenza nelle corti e nelle scuole d’Europa e nel mondo.

Una posizione, quella del papa polacco, che non mancava di raccogliere consensi nello stesso ordine gesuita. Fra le punte di diamante di questa opposizione alle aperture di Padre Arrupe sembra sia da includere anche lo stesso Padre Bergoglio, teologicamente piuttosto cauto e assai legato alla corrente più tradizionale del pensiero cattolico. Non che non avesse validi motivi per giustificare le sue preferenze: la gravissima crisi dell’ordine e la fuga di migliaia di padri gesuiti nel mondo, devono aver certo contribuito al “serrate le file” che non tardò a venire dalla casa generalizia di Borgo Santo Spirito a Roma. E nessuno ebbe motivo di meravigliarsi se quell’invito, diretto ai gesuiti di tutto il mondo, fu raccolto anche in Argentina.

Meraviglia ci fu, invece, e planetaria quando  quel padre gesuita, divenuto prima arcivescovo di Buenos Aires e poi vescovo di Roma, appassionato di calcio e tifoso della sua squadra, il San Lorenzo, adottò (non saprei dire se d’istinto o per calcolo preciso) la tattica che solo i grandissimi del calcio alla Rivera o Platini o Baggio sanno realizzare: con un solo passaggio spostare il gioco da un lato del campo, intasato di giocatori, all’altro, dove tu vedi che c’è un tuo compagno, del tutto libero, e pescarlo con un traversone al centimetro, perché egli possa facilmente puntare con successo a rete.

Così, a mio parere ha giocato, specialmente agli inizi del suo pontificato, papa Bergoglio. Basta dispute teologiche: non è di questo che ha bisogno il popolo di Dio. Parliamo invece di giustizia, carità, accoglienza, prossimità come a lui piace dire. Di misericordia soprattutto. E d’incanto accadde l’impossibile: piazza san Pietro sempre gremita, le chiese con più gente di prima, un ritorno ai confessionali. I suoi viaggi non come passarelle per il trionfo, ma come banchi di prova per le buone intenzioni. Sinodi scabrosi che diventano seminari per nuove prospettive teologiche e pastorali: preti di strada a far da vescovi in chiese abituate alle porpore cardinalizie; vescovi di sedi abituate alla porpora che si dovranno accontentare d’ora in poi del più modesto violetto.

Ha qualcosa a che fare tutto questo con l’obbedienza di cui si parla nel titolo? Io credo di sì. Anzi proprio papa Bergoglione è il testimonial ideale. Egli non fu uomo del sì a tutto e a tutti i suoi superiori. Come Paolo davanti a Pietro, anche lui ha resistito al suo superiore e generale Padre Arrupe. Ne prese le distanze, seppe aspettare il suo tempo. Senza rompere l’obbedienza, ma senza rinunciare alle sue convinzioni.

Questo vorrei fosse sempre il modello e il principio. Obbedire finché si può farlo senza tradire la propria coscienza. Intanto pregare,  lavorare, scrivere, insegnare perché il meglio trionfi. Sapendo bene che si potrà anche essere smentiti, contraddetti, ripresi, forse puniti. Sapendo che saremo sempre in buona compagnia. Ben sapendo che chi semina “va e piange”, mentre chi miete “viene e ride portando i suoi covoni” che magari altre mani hanno piantato e altre lacrime hanno annaffiato. Così, infatti, sta scritto (Sal 125, 5-6).

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