Oggi la liturgia domenicale della santa Messa ci ha presentato una di quelle pagine del Vangelo, che se non fossero già state scritte quasi duemila anni fa, oggi qualcuno avrebbe dovuto inventarle.
È la parabola celebre del pubblicano e del fariseo che contemporaneamente sono saliti al Tempio di Gerusalemme, tutte e due per pregare. E Luca, in pochissime righe, ci racconta la loro preghiera e ci rivela un mondo che ci coinvolge tutti: perché ognuno di noi si riconosca in uno dei due personaggi che giunti nel tempio, si mettono a pregare.
Non c’è bisogno che ci spenda molte parole: le sapete tutti a memoria.
Uno è un fariseo, e va dritto davanti a sé, fin dove può avanzare, e sempre diritto in piedi prega così ”grazie, perché non sono come gli altri uomini, come quel peccatore laggiù: io osservo tutti i tuoi comandamenti e le leggi di Mosè”
L’altro appena entra nell’aula sacra del Tempio, si prostra in terra, la fronte a a toccare il pavimento mentre il suo cuore, gemendo, invoca: “O Dio, pietà di me peccatore”. E Gesù commenta: il primo con tutta la sua giustizia se ne tornerà a casa con un peccato (d’orgoglio) in più; il secondo se ne andrà dal tempio perdonato di tutti i suoi peccati.
Non vi pare straordinario? Dio lo ha perdonato solo per avergli chiesto perdono, direttamente a Dio e senza intermediari, con la piena fiducia che sarebbe stato ascoltato e perdonato.
Perché questo è il il perdono vero, l’unico vero perdono: ”gratuito”, generoso, senza penali di sorta, senza dover pagare nulla che non sia il pentimento vero del cuore.
Perché se c’è un prezzo da pagare, e io lo pago, il perdono non è più “per-dono”, ma “per-penale-pagata”. Ma la penale non è mai un fatto d’amore, ma semmai di giustizia o di contravvenzione. No è degna di un padre, tanto meno di Dio.
Ma poiché il nostro Dio è il padre di Gesù Cristo nel suo nome vi benedico. Don Antonio