I Vespri di oggi ci hanno proposto uno dei salmi più struggenti di tutto il Libro dei Salmi. Faccio finta che tutti sappiate cos’è un salmo, e come e quando lo si prega: un canto religioso dell’antico Israele. Canti che nascono in situazioni di gioia o di dolore, di fiducia o di disperazione, di vittoria o di sconfitta, di imprecazione e di benedizione, di peccato e di pentimento.
Quello di stasera se ve lo cito con le sue proprie parole nessuno o quasi lo conosce, ma se ve lo cito con le parole che ne han fatto la più famosa aria del Nabucco di Giuseppe Verdi, tutti diranno lo conosco! È il “Va pensiero”, che descrive il dolore di un popolo schiavo e per di più in esilio, e il suo inconsolabile rimpianto della patria perduta e lontana.
Queste le parole che tutti conoscono, perché una volta ce le insegnavano a memoria a scuola:
“O mia patria, sì bella e perduta,
o membranza sì cara e fatal!”.
Esatto, è il” Va pensiero”, che racconta il dolore della patria lontana e il dolore degli schiavi che devono rompersi la schiena per far la fortuna degli odiati dominatori.
Guardateli bene: sfiniti per il durissimo lavoro, durante i brevi minuti di riposo si sono seduti sulle rive dell’Eufrate all’ombra dei salici, dai cui rami pendono mute le arpe e le cetre, mentre gli aguzzini insistono “cantateci i canti di Sion”.
Ed è qui che arriva il tuono che tramortisce, le parole che noi cristiani non abbiamo più il coraggio di ripetere nelle nostre preghiere. Sono fra le più atroci di tutta la Bibbia: c’è dentro tutto l’odio che di quei 40 anni di esilio e di schiavitù:
« Beato chi afferrerà i tuoi bambini
e li sbatterà contro la roccia! » (Salmo 137,9).
E ora pensate ai nostri soldati nelle trincee. Non erano migliori di loro. È la guerra che fa di noi delle bestie. E qui ci nasce in cuore, prepotente, il grido di Paolo VI: “mai più la guerra! Mai più la guerra!”. Così sia, Signore.
Don Antonio