Laudato sie, mi’ Signore, per nostro frate corpo…


Non so perché, né come mai, stamattina mi sono svegliato presto, verso le 4 forse. Non avendo più sonno ho incominciato pregare. Una gran pace dentro e un gran silenzio fuori di me. Vidi la mia camera piena di volti che conoscevo bene.
Erano visi cari, amati, tutti intorno a me a farmi corona, dalle pareti, dal soffitto: nulla d’arcigno, nulla di indigesto nei tanti volti che mi fissavano: anzi piuttosto amicizia, forse complicità. Erano volti normali, tranquilli sereni, sorridenti i più: lingua vernacolare aggraziata nel parlarmi, educata, sgrammaticata forse, in qualche caso venata di poesia istintiva, non appresa dai libri, succhiata, credo, dal e col latte materno.
Erano tutte lì, quelle facce, più di donne che di uomini – assai più donne che uomini – a pregare con me, a dar lode con me allo stesso Signore, a cantare con me le bellezze del nostro mondo, della nostra fede, del nostro amore reciproco. Sì amore. Potevo avvertire un senso profondo di pace, di gioia intima, di appagamento. In quei momenti non più ombre, solo luci; non più timori, solo speranze; non più nebbie soltanto sole. Tutti i dubbi risolti, tutte le ubbìe riassorbite: svanite come le prime nebbie che svaniscono presto al sole che si alza verso lo zenit ,
Ho rivisto passarmi davanti tutte le mie camere d’ospedale, una lunga serie di stazioni d’una via crucis di tutto rispetto: mancava il ricordo visivo solo della prima: a 18 mesi d’età, a Marsciano credo, due operazioni per osteomielite, una alla testa (alcuni dicono che così si spiegano tante cose di me); quella di Perugia, nella piccola clinica (privata) che mi ospitò quando una macchina, passando sopra a una mia caviglia sopra un marciapiedi, fu lì lì per provocarmi l’amputazione della gamba sinistra; a 16 anni appendicectomia, a Marsciano; a 21 anni asportazione di una “borsite del chierico” (Marsciano): poi fu tregua. Ma breve. Perché poi fu epatite C, e poi il lungo calvario fra Perugia Milano, Bergamo, Palermo, in ogni tappa più soste, più stazioni fino a quella di morte prima e dirisurrezione poi, quella del trapianto a Palermo, cui seguirono sei anni di controlli (sei TAC, innumerevoli ecografie, emocromi ecc.). Un ricovero a Parugia l’anno scorso. Ora vivo nell’attesa e nella speranza del (chimerico?) sofosbuvir da 30.000 a 50.000 euro in tutto per tre mesi di cura, ma che promette d’essere risolutivo. Unico interrogativo, ma d’un certo peso: dove trovare questa cifretta? Quisquilie e pinzillacchere, avrebbe detto il grande Totò! Per lui forse, per me un po’ meno.
Perché ho raccontato tutto questo? Non certo per piangermi o farmi piangere addosso dai miei lettori, ma solo perché nessuno fra chi mi leggerà possa dire che è facile benedire “frate corpo” quando questo ha fatto il suo dovere assicurandoci una vita facile, meglio se anche felice, con disponibilità di qualche soldo che non guastano mai e con una salute forte, sicura e con molte soddisfazioni nel o dal lavoro.
Della salute ho già detto. Quanto al mio lavoro le luci non sono mancate, e non sono mancate le ombre. Tante anche, sia le une sia le altre. Che ho già sintetizzato così: 18 anni di luna di miele e 22 di luna di fiele (in Ricomincio da 65) . Che in tutto fanno 40. Io sono prete da 51anni. Per gli altri dieci mettiamola così: 5 di paradiso (i cinque anni romani di studio per la laurea, di cui due miracolosi al Concilio Vaticano II) e 6, dal 2009 a oggi, una normale vita da pensionato sempre al lavoro: di scrittura soprattutto, da quando non insegno più.
La Parrocchia? È il telo su cui ho ricamato la mia vita. Quanti punti sbagliati la mano inesperta potrà aver commesso, saranno altri a giudicare. Quanto al gioco di luci e ombre, dirò solo che non sono certo un Gherardo delle notti. Lì siamo alla perfezione, io sono molti piani più in basso, anche se forse non proprio al piano terra.
Ma è ora di ritornare all’inizio, a quell’ora di quasi mistico trasporto, niente di soprannaturale per carità, solo un momento di grazia tutta umana, come quella dell’artista folgorato dall’intuizione, o di chi intuisce con chiarezza assoluta d’aver trovato la risposta che cercavi da anni.
Allora ho sentito prepotente il bisogno di ringraziare Dio di quel momento, di quel dono e di tutti i doni di cui quel momento era come il compendio e al tempo stesso il frutto maturo. E ho ringraziato Dio per avermi dato occhi per vedere quegli occhi, orecchi per ascoltare le loro parole, le mani per stringere o accarezzare altre mani e un cuore per amare e per essere amato.
L’ho ringraziato per i momenti – le ore! – passate insieme, per le parole che ho saputo dire e che ho potuto ascoltare, per il conforto che ho potuto dare e ricevere, per l’amore che ho potuto donare e che mi stato reso in cambio.
E mi son chiesto di quale dio meraviglioso, amabile, adorabile, immenso tutto ciò poteva essere dono, e se io lo potevo conoscere, intuire, incontrarlo… e, oh miracolo!.. mi son potuto, anzi mi son dovuto rispondere che sì, certo, Lo conoscevo, ab immemorabile, anzi da sempre, proprio: da sempre! Il Dio di cui m’ha sempre parlato mia madre fin da quando m’allattava, che mentre il latte fluiva dalla sua mamma alla mia bocca, dalla sua bocca fluiva la preghiera che mi raccomandava al suo Dio, che fosse davvero un Padre per me, il mio vero grande Padre, più grande e più vero di quello che l’aveva ingravidata e che ora stava lontano, al lavoro, mentre Lui era lì, con lei: lei che intanto che a me dava il suo latte, a Lui chiedeva la sua benedizione per me.
E come lei – la mia mamma – la prima delle tante donne lì raccolte stamattina tutte attorno al mio letto, anche loro, le altre, mamme tutte come lei, prendevano parte alla preghiera, un’unica liturgia d’amore e di preghiera nel segno della fede e dell’incrollabile speranza: “chi ci ha messi vicini te e noi, saprà anche riunirci nel suo regno, perché dove è Lui siamo anche noi. Eternamente. Amen. Amen. Così è. Così sarà”. Amen.
Intanto erano passate un paio d’ore, e bisognava incominciare a pensare di lasciare il letto. Un po’ controvoglia ne sono sceso e ho incominciato la liturgia del mattino del risveglio. E solo ora mi accorgo che stamattina – cosa che non mi accade proprio mai – mi sono dimenticato di accendere la radio per seguire, alle 7,15, Prima Pagina la rassegna stampa di RAI 3. Vuol dire proprio che chissà dov’ero col pensiero. Finita la liturgia del risveglio, sono entrato in studio e ho acceso il computer, cercandovi il Cantico delle creature di Francesco. “Lo titolerò Laudato sie mi Signore per frate corpo”.
Poi mi sono ricordato che Francesco il suo corpo lo chiamava frate asino. Non fui d’accordo. Allora ho cercato su un sito francescano la testimonianza di un francescano sul tempo del suo noviziato. Il concetto e il titolo era Frate corpo-asino. Peggio che andar di notte, ma non finiva qui: vi si diceva che i giovani aspiranti frati, entrando in noviziato, si vedevano consegnare come dotazione normale, «delle catenelle di ferro, e che essi , al vederle, si insospettirono. Timore giustificato: il padre Maestro spiegò loro che quegli aggeggi erano discipline» con cui “accarezzarsi” spalle braccia e gambe in segno di penitenza per tenere a freno le “tempeste di ormoni” che a quell’età si risvegliano spesso e volentieri.
E mi son chiesto: discipline? E perché? Se Dio e la natura hanno permesso questo una ragione c’era: la sicurezza che non sarebbe mai mancato un ricambio nella specie. Chi mai ha potuto scambiare un piano di provvida sapienza, come una subdola, raffinata tecnica di tentazione al fine di provare la santità e la fedeltà dei figli di Dio? Quale genitore metterebbe mai afrodisiaci sui cibi da dare ai figli per poi vedere se sanno mantenere la castità? Se no giù botte! C’è qualcosa di storto, non c’è dubbio: in Dio o negli uomini di Dio? Io, la mia risposta, la potete intuire da soli. Quanto a voi, fate voi. Una moglie non mette una donna nel letto del marito per metterne a prova la fedeltà. E non ci fa pregare Gesù: «non ci indurre in tentazione»? O sono io che non capisco?