Amarcord Padre Pio da Pietralcina


Rientrato in casa dalla celebrazione della messa, ho sentito il bisogno di pensare – e di scrivere – di Lui. Anzi di Lui e di me, per quel poco che ci siamo incontrati. Dire conosciuti sarebbe dire troppo. Io, ma-gari, qualcosa di lui sapevo (dai giornali, dai rotocalchi, dai libri), ma lui di me certamente non sapeva nulla. Per di più io avevo la Mamma che del cappuccino di San Giovanni Rotondo era molto devota. Molto. Ogni tanto mi diceva che ne aveva sentito il profumo di violette. Allora ne parlavano in tanti, collegandolo spesso a qualche grazia o miracolo. Io confesso di non averlo mai sentito. La Mamma aveva sempre desiderato andare a San Giovanni Rotondo, per vederlo, parlargli e chiedergli preghiere. L’occasione le si presentò nell’estate 1964. Ero prete da quattro mesi, ed ero a casa per le vacanze estive. Le chiesi se avesse gradito fare un viaggetto in Italia con me, e dove volesse andare. La risposta fu immediata: “Da Padre Pio!”. Ci trovammo d’accordo. Sarebbe piaciuto anche a me, poiché non c’ero mai stato nemmeno io. Partimmo pochi giorni dopo. Viaggio tranquillo fino a Pescara, poi il cammino si fece da lumaca. Non c’era ancora autostrada, ma c’era già il mare e l’Adriatica non bastava certo a soddisfare tutte le esigenze di quelle località di mare in estate. E da Pescara al Gargano fu un morire di pizzichi. Quando arrivammo era già verso sera. Cercammo una camera.
“E fu sera e fu mattina. Primo giorno”.
La mattina dopo, come ogni pellegrino, verso le cinque eravamo anche noi davanti alla porta della prima chiesetta del convento (oggi di chiese su quel colle ce n’è da spreco, dal microbo al dinosauro). Seguì l’emozione di quella che fu per me la prima messa di Padre Pio. Durò circa due ore e mezza (prima le sue messe erano state anche di 4-5 ore). Nessuno se ne faceva un cruccio, anzi per tutti erano una grazia. Non se ne perdeva una mossa, un sospiro, un gesto, e come colonna sonora l’incredibile silenzio della chiesetta troppo piccola, il vocione un po’ sgraziato del Padre, i singhiozzi di qualche donna.
Finita la messa si usciva tutti. Per le donne quei pochi passi fra la chiesetta e la sacrestia era l’unica occasione per vederselo passare vicino. Noi uomini invece, potevamo salire al primo piano del convento nuovo, dove lo aspettavamo anche noi al passaggio: lì potevi porgergli una busta che poteva contenere un’offerta o una richiesta di preghiere, una grazia, una benedizione, una guarigione. Alcuni gli chiedevano se lo accettava come figlio spirituale. Momento non privo di rischi, a quanto si diceva: non erano rarissime le volte che il Padre rispondeva anche male alla richiesta, che no, non ti accettava! Sentirsi dire da quel vocione roco e profondo, nel religioso silenzio che regnava: “no, te non t’accetto. Vatténne!” doveva fare un certo effetto. Anche la mamma mi pregò di chiederlo per lei, e la risposta fu un Si senza riserve. Quanto a me, non so bene se il primo o secondo anno glielo chiesi anche per me. Confesso che ero trepidante. Ma anche per me la risposta fu affermativa. La sera, al momento dell’Ave Maria tutti i pellegrini si davano appuntamento sul lato meridionale (mi pare) del vecchio convento per il saluto e la buona notte al Padre. Era sempre una piccola folla almeno qualche 100-200 pellegrini che volevano pregare l’ultimo Angelus della giornata col Padre. Al termine, dalla finestrella della sua cella, il Padre s’affacciava e salutava tutti i presenti col suo immenso fazzolettone bianco. Erano momenti di forte emozione, e vi confesso che, mentre scrivo, un groppo mi stringe la gola al solo ricordare quei momenti. Poi il Padre si ritirava, la finestrella si richiudeva e, per tutti, incominciava l’attesa per la mattina dopo, all’alba, per la messa del Padre. Di quel primo viaggio sono questi i ricordi più importanti. Poca cosa come vedete. Ma quanto importanti per me, giovanissimo prete!
”E fu sera e fu mattina. Secondo giorno”.

Ci furono altre tre viaggi da Padre Pio vivo, una volta l’anno, sempre ai primi di settembre e una volta in primavera. L’anno dopo, il 1966, fu per me un anno importante. Avevo passato i due mesi estivi a Staufen, Foresta Nera, in Germania, dove ero andato per imparare il tedesco. Vi feci delle amicizie che hanno segnato, nel bene e nel male, gran parte della mia vita. Il bene fu nella bellezza di quelle amicizie che, con chi c’è ancora, durano anche oggi; il male fu nel legame che io strinsi con quella terra che mi aveva rapito l’anima, al punto che per anni ho trascurato di viaggiare in altre parti del mondo, per non mancare al mio annuale appuntamento con la mia seconda Heimat. Grave errore, indubbiamente, per un giovane, perché mortificò in parte la mia voglia di viaggiare, di conoscere. Di nuove esperienze. Ma quello che trovavo lassù mi appagava totalmente.
Una di queste amicizie fu con la famiglia di cui fui ospite nei due mesi che passai al Goethe Institut, continuando a frequentarla fino alla morte di lei (lui era già morto l’anno prima).
Passavo ore a parlare con la Signora, alla quale del resto piaceva molto parlare. A me serviva per familiarizzare con quella non semplicissima lingua. Un giorno la Signora, profondamente turbata, mi confidò che i medici escludevano per la nuora la possibilità di avere un figlio. Mi disse: “Lei frequenta Padre Pio: gli parli di noi”. Mi sentii in imbarazzo, ma glielo promisi ugualmente. Mantenni la promessa e lo feci sapere alla Signora. Il Padre mi aveva detto semplicemente: “Pregherò”. Non una parola in più. Per quell’anno non ne seppi più nulla.
“E fu sera e fu mattina. Terzo giorno”

L’anno dopo, tornato come sempre a Staufen, presso la stessa famiglia, la Signora mi informò che la nuora, giusto una quindicina di giorni dopo il mio colloquio con Padre Pio, era rimasta per la prima volta incinta. “Ma qualche giorno prima di natale ha perso il bambino!” concluse commossa. Poi osò ancora: “La prego, gli parli ancora”. Glielo promisi. Poche settimane dopo mantenni la parola: “Padre, sa quella coppia di amici tedeschi di cui le parlai l’anno scorso? Pochi giorni dopo la nuora era rimasta incinta, ma a natale ha perso il bambino”. Il Padre mi disse ancora: “Pregherò”. Anche questa volta ci fu quasi subito una nuova gravidanza. Questa volta la Signora mi informò subito della cosa. Dopo nove mesi nacque una bimba. Oggi è sulla cinquantina, vive e lavora a Friburgo in Brisgovia. Tornato in settembre da Padre Pio, glielo feci sapere, e lo ringraziai. Invece a confessarmi da lui non ci ho mai pensato.
“E fu sera e fu mattina. Quarto giorno”.

L’ultimo dei mie ricordi di Padre Pio vivo è anche il più bello. La Chiesa intera viveva nell’attesa della chiusura del Concilio prevista per l’8 dicembre 1968. Il grande filosofo Jean Guitton, primo uditore laico in un concilio ecumenico dei tempi moderni, aveva ricevuto da Paolo VI, suo grande amico e “protettore” (lo aveva difeso e salvato dalla condanna all’Indice dei libri proibiti per il suo famoso e discusso La Vierge Marie) l’incarico di preparare uno degli otto Messaggi la cui lettura avrebbe concluso il Concilio ecumenico; (lui non mi disse mai di quale si trattava), tanto meno mi disse quale degli otto messaggi gli era stato affidato a lui. Mi parlò solo di “un incarico molto delicato e importante” Un giorno, me lo vidi arrivare davanti, in San Pietro, che mi fa: “Monsieur l’Abbé (Guitton non parlava italiano, né mi chiamò mai per nome, né con sua moglie si davano mai del Tu) avrei bisogno di vedere padre Pio. Mi può aiutare?”. “È facile – risposi –: si prende la macchina e si va a San Giovanni Rotondo”. Detto e fatto. Era l’autunno 1967. Il giorno stabilito siamo partiti, pieni di speranza. Guitton non stava più nella pelle. Con noi c’era anche Marie-Luise, la sua dolce e devotissima moglie, di cui, in occasione della morte, lui me ne dette notizia con le parole “Lei le voleva bene”. Siamo arrivati la sera, giusto in tempo per trovare due camere e dormire. La mattina dopo, eravamo in chiesa con tutti i pellegrini, per la messa. Come un fulmine a ciel sereno la notizia: “Padre Pio è indisposto. Stamattina non scenderà per la messa”. Costernazione, forse disperazione di Jean Guitton che aveva le ore contate. Non avremmo potuto aspettare il giorno dopo. Viaggio inutile. Guitton ci teneva tanto a una benedizione del Padre su quell’incarico del papa! “Che si fa?” mi chiese con occhi spenti, inespressivi, lui nei cui occhi c’era sempre tutta la sua anima. Gli feci coraggio. “Io quaggiù qualcuno conosco e qualcuno conosco anche a Roma”. Qualche telefonata a Roma perché “qualcuno” parlasse con il padre guardiano del convento. La telefonata ebbe effetto: il nome di Guitton aiutò molto. Alle undici del mattino fummo ammessi nella clausura del convento (la povera Marie-Luise, essendo donna, dovette rimanerne fuori) e potemmo entrare nella ambitissima CELLA DEL PADRE! Una specie di Sancta Sanctorum che si apriva per noi due! Così fummo ammessi ad entrare. Il Padre era seduto sulla sua vecchia malandata poltrona, vicino alla finestra, l’enorme sciarpone di lana grossa grezza marrone buttata sulla sua testa a proteggerla dal freddo e che gli scendeva fino ai ginocchi. Ci guardò, fra il rassegnato e il paziente e, mi parve, senza particolare curiosità. Io gli dissi: “Padre, questi è Jean Guitton, filosofo e primo uditore laico del Concilio ecumenico e grande amico di S.S. Paolo VI. Parlerò io perché il professore non parla italiano. Ha ricevuto dal papa un incarico molto delicato, per il quale invoca la sua benedizione”. La risposta non si fece attendere. Egli distolse i suoi occhi dalla mia faccia alla sua. La risposta fu di due sole parole: “Lo benedico”. Aggiunsi: “Chiede anche la sua benedizione sul suo lavoro e per sua moglie che non è potuta entrare”. Il Padre si ripeté: “Li benedico”. L’udienza era finita. Un gesto gentile del frate che ci accompagnava ci indicò l’uscita. E noi uscimmo. Guitton era felice: aveva ottenuto quello per cui era venuto. Del resto anche Guitton alternava momenti di alta conversazione, con lunghe pause di profondo silenzio. Aveva avuto ciò che voleva. Ora voleva gustarsi il dono ricevuto. Lo rividi pochi giorni dopo, sempre in san Pietro, durante una sessione del concilio. Mi venne incontro con passo ilare, svelto, felice: “Monsieur l’Abbé, la benedizione ha fatto il suo effetto. Dopo qualche ora di lavoro, era finito”. Di quella visita mi resta in ricordo un ritratto a carboncino “fait de memoire” (disegnato a memoria) con la data del 18 ottobre 1968 (non è la data dell’incontro, perché allora il filosofo era già morto; ma del giorno in cui me ne fece dono). Jean Guitton, eccellente acquarellista le cui opere sono anche oggetto di mostre nel mondo, ama anche il bianco e nero. Di lui ho anche un acquarello con Gesù e i discepoli di Emmaus in rapido cammino verso il villaggio (sottolineo il rapido perché li si vede proprio camminare in tutta fretta, forse fuggendo da Gerusalemme). Me ne fece dono in ricordo d’una settimana che io avevo passato con lui nella sua casa di campagna nel Limousin, nel Massiccio Centrale della Francia, dove ora i due coniugi sono sepolti, e dove ho fatto loro visita giusto un paio d’anni fa. L’emozione di quell’ora, su quella tomba in quella campagna fu una delle ore alte della mia vita.
“E fu sera e fu mattina. Quinto giorno”.

Ma non è finita qui. Ho ancora un ricordo, il più grande, il più bello, il più mio (in assoluta esclusiva) di Padre Pio e questo ha a che fare con la sua morte. Ero in Germania, quando dalla televisione seppi che Padre Pio stava morendo. Senza pensarci due volte presi su le mie cose, le caricai in macchina e il mattino dopo partii. Impiegai quasi due giorni per arrivare a casa. Allora la Svizzera non aveva ancora un solo chilometro d’autostrada sulla direttiva Basilea, Lucerna Gottardo Lugano, e i cantieri stradali non finivano mai. Un festival di semafori e di sensi unici alternati che duravano ciascuno un’eternità. 1100 i chilometri di allora in queste condizioni, solo 900 circa e tutti di autostrada, oggi. E la mia macchina era un 500 piena che scoppiava. Arrivai a casa di sera, molto tardi. Dormii qualche ora, mi alzai presto, presi con me mia madre e via a san Giovanni Rotondo. Non andavo per il funerale ma solo per fare un po’ di veglia alla salma durante la notte. Arrivati facemmo subito una visita alla camera ardente, in chiesa. Volevo che anche mamma lo vedesse, pur non facendola star su di notte. Alle tre io ero inginocchiato accanto alla bara, le mani giunte appoggiate al bordo della bara: niente e nessuno fra me e lui. Vi rimasi poco più d’un’ora poi tornai dalla mamma: sapevo che sarebbe stata in agitazione. La mattina dopo, un’altra breve visita alla salma e via subito verso casa. Passarono un paio d’anni. Ero ancora in Germania, e la Signora Anna, la stessa della richiesta d’un bambino per suo figlio, mi dice: «Un paio di mesi fa qui tutti l’hanno vista in televisione (allora, quando ero a Staufen, mi conoscevano molti perché dicevo sempre la messa in tedesco in parrocchia e negli ultimi anni la domenica predicavo anche, in tedesco naturalmente). “Era un film su Padre Pio e c’erano anche le riprese della morte e dei funerali. A un certo punto, per una ventina di secondi sullo schermo si vedeva solo il Padre nella bara e lei, da solo, inginocchiato a fianco del Padre”. Mi sembrò bellissimo. Una vera carezza di Padre Pio.
“E fu sera e fu mattina. Sesto giorno”.

Certo allora io ero ancora, sempre secondo il giudizio di Jean Guitton, “una delle più belle speranze della Chiesa italiana”. La mia luna aveva ancora il sapore del miglior miele del mondo. Ma si sa, la luna, per natura sua è mutevole. Sarebbe entrata nella fase di luna nuova giusto un anno più tardi, e da allora non ne è più uscita del tutto. Sia ben chiaro: non mi faccio né vittima né martire e se dovessi mettere a confronto il mio dare e il mio avere direi che ciò che io ho avuto dalla vita e dalla misericordia di Dio è molto più di quanto io non abbia saputo dare. Incomparabilmente di più. Non mi lamento certo perché ho ricevuto troppo poco, ma perché non mi è permesso di poter dare di più, molto di più. Mi hanno perfino detto che l’han fatto per proteggermi. Così mi hanno messo sotto una cesta. E mi ci han lasciato tutta la vita. Qualche ora d’aria in verità me l’hanno lasciata: la scuola e la libertà che mi son preso sulla carta stampata. Peccato che una cesta, se anche ti protegge, non ti offre mai grandi orizzonti. Son proprio questi sconfinati orizzonti e ancora mi mancano tanto. Ora però è cominciata una lotta contro il tempo, che vorrei tanto vincere anche e soprattutto in nome di Padre Pio e di Jean Guitton, le cui speranze che avevano riposte in me sono andate in gran parte deluse. Ma non è ancora tramontato il sole del settimo giorno e fino a quel momento, solo che Dio me lo permetta, non cesserò di lottare. Quando sarà, se non potrò più dirle io, vorrei che una voce pietosa mi mettesse in bocca o le dicesse lei per me, le divine parole della Creazione.
“E fu sera e fu mattina. Settimo giorno”.

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