Pacifista o vigliacco? Semplicemente cristiano.


È una domanda che mi porto dietro da una vita. Alla quale non ho mai saputo dare una risposta. Forse solo l’uno o forse solo l’altro? O forse tutt’e due? Perché potrebbe anche essere: un po’ l’uno e un po’ l’altro.
Uomo di pace lo sono certamente. Non mi piace né lo scoppio delle bombe, né il suono delle sirene, né il terrore dei bombardieri che ti passano sulla testa cercando qualcosa a cui sparare. Non avevo compiuto quattro anni quando passò il fronte in Umbria, la mia regione.
Di quei tremendi momenti ne ricordo tre o quattro: il primo ci sorprese in casa. Suonarono le sirene, quell’orrendo ululato che chi l’ha sentito una volta non lo dimentica più, vivesse mill’anni.
Eravamo in casa, io mamma e mio fratello Egisto. In un attimo fummo tutt’e tre in strada: mamma mi portava in braccio, e con l’altra mano teneva forte mio fratello che non s’allontanasse da lei nemmeno d’un metro. Fortunatamente, il rifugio non era più di cento metri da casa, e in un attimo vi fummo tutti dentro, ansimanti, spaventati, fra altre centinaia di persone che chi piangeva chi pregava che le bombe risparmiassero la loro casa, tutti sperando che quell’incubo finisse presto e si potesse tornare tutti a casa.
Di quel rifugio non so se sia rimasta traccia: sarebbe un peccato! Meriterebbe un recupero e la trasformazione in un museo di quel tempo di guerra. Un’idea che propongo all’Amministrazione comunale.
Dove voglio arrivare? L’ho presa un po’ lunga solo per dire che la violenza mi dà sempre un senso di orrore che non riesco a vincere. Sicché quando vedo alla televisione scene di guerriglia urbana (cosa che da alcuni anni avviene quasi tutti i giorni), io non posso fare a meno di provare compassione, rabbia e sdegno per tutto ciò che sono costretto a vedere: sangue, manganellate, idranti, macchine rovesciate, teste rotte, barelle, militari o comunque forze dell’ordine schierate e a testuggine, elmi e dischi e manganelli da una parte e dall’altra. Cambiano solo le città, le nazioni, il continente. E ti dici che tutto il mondo è paese. Anche l’orrore si è globalizzato.
A volte più che a seguir la notizia, di fronte alla quale sei del tutto impotente e ininfluente, mi vien fatto di chiedermi chi gli darà mai quel coraggio d’andare in piazza, a rischiare quello che rischiano. A menare di brutto, pesante: le prendono e le danno, perché sanno che fa parte del gioco ed è proprio a quel gioco che vogliono giocare. Quasi un nuovo genere di turismo: quello del menar botte. Botte vere attenzione, senza controfigure, senza effetti speciali, a rompere ossa e teste, gambe e braccia. I profeti di questo turismo, i capiscuola li chiamano black block: suona anche bene, facile da ricordare, utile per tutti: per chi vuol vederli in azione, per chi aspira a farne parte, per chi vuole tenersene lontano.
Un lungo passo indietro: fino al novembre 1953. Avevo esattamente 14 anni ed ero seminarista a Perugia, Seminario vecchio, all’imbocco di Via Maestà delle volte. La finestra del nostro studio dava direttamente su quella stretta breve e bellissima. Un giorno udimmo venire dalla strada, una decina di metri sotto di noi, le voci d’una manifestazione di folla che scendeva verso il Morlacchi: cantavano canzoni patriottiche e lanciavano slogan di cui non tutto ci era chiaro. Avremmo voluto affacciarci per vedere, ma il professore ci intimò di restare seduti ai nostri posti. Non ricordo se usò parole di comprensione o di solidarietà o se invece parlò di perditempo.
Ci fu spiegato poi che erano manifestazioni di protesta contro la repressione operata dalle grandi potenze contro chi protestava contro l’ingiustificato prolungarsi della separazione di Trieste e della cosiddetta Zona A dalla Madre Patria. In quell’autunno del ’53, quelle manifestazioni di piazza per la riunificazione di Trieste all’Italia s’erano fatte imponenti. In Italia impazzava una canzone dal titolo La campana di San Giusto, che ci raccontava come “per le piazze e per le vie di Trieste/ suona suona di San Giusto la campana”, mentre “le ragazze di Trieste, cantan tutte con ardore / o Italia , o Italia del mio cuore/ tu ci vieni a liberar”.
In quel clima di euforia, anche Perugia fece la sua parte e quei cortei si ripeterono per diversi giorni. Anche noi, giovani seminaristi, avremmo voluto esserne partecipi ma, a una mia richiesta in tal senso, l’ottimo professore di lettere don Gustavo Guercini (al quale conservo gratitudine eterna, per avermi, lui, esortato a coltivare la scrittura) dette una risposta che ci tolse ogni illusione: «Pensate a studiare, e farete migliore la vostra Patria». Io mi provai a scriverci su una delle mie prime e sempre poche poesie: ne ricordo solo la conclusione che conteneva una profezia che risultò sbagliata solo di poco. Due versi di cui non posso che sorridere oggi: «l’inverno ancora non sarà finito / che tu di nuovo risarai italiana». I versi sono dioneguardi, ma la profezia si realizzò già nell’autunno seguente.
Ma quei cortei non mettevano paura a nessuno. Raramente finivano in disordini gravi (se la memoria non mi fa difetto). Non esisteva ancora il turismo degli sfasciatutto, alla blak block per intenderci, che ti porta dovunque ci sia da menar le mani e teste e vetrine da scassare. Non c’erano ancora stati gli anni di piombo, pagine tragiche e per niente epiche della nostra storia recente.
Oggi invece il sangue è sistematico, le guerriglie sono diventate vere e proprie guerre. Ogni giorno sono nuovi scontri, nuovo sangue, nuove vetrine fracassate, nuovi feriti, nuovi morti, a decine, a centinaia. Alla fine i morti si può arrivare a contarli a decine, a qualche centinaio di migliaia (Siria).
Ed è proprio qui che nasce il mio problema: fabbrica dell’orrore o fucina di Grande Storia? La mia non è accademia, è vero dubbio: e io chi sono? Uno che si diletta con i concetti tanto per riempir colonne di giornali, oppure uno che “ha scelto la parte migliore”? Chi è più costruttore di storia: chi sparge sangue o chi manovra concetti e propone ideali?
Di certo io mai e poi mai potrei andare dove si spaccano teste e vetrine, uffici pubblici e negozi privati… Mai!
Allora io chi sono? Un parassita della Storia? Uno che manda avanti gli altri: voi rischiate, che se va bene a voi, andrà bene anche a me. Un pusillanime? Un fifone? Un crumiro della Storia?
O sono invece uno di quelli che hanno capito che “chi mette mano alla spada, di spada anche muore” (Mt 26,52)? Non disse e non fece proprio così Colui che è il mio Maestro, Gesù di Nazaret? Potrei io allontanarmene proprio su questo essenzialissimo punto?
Ma il dubbio resta: e se fosse invece paura? Paura di prenderle, paura di finire all’ospedale? Paura di lasciarci la pelle. Paura di rimanere invischiato in una storia giudiziaria che non finisce più? Ma non è proprio su queste paure che fanno conto i corrotti padroni del vapore? E non è forse, al contrario, il disprezzo e la vittoria su queste pur sacrosante paure il grande merito dei martiri di Tahrir, di Bengasi, di Damasco, di Aleppo e di Kiev?
Che tutto questo a me faccia anche paura non c’è dubbio. Che sia solo, o soprattutto paura, vorrei tanto sperare di no. Che sia anche fede nei metodi di Gandhi e di Martin Luther King e di Nelson Mandela e di tutti i movimenti di segno pacifista (Occupy Wall Street, Se non ora quando…) è ciò che spero vivamente. Mi sento più a casa mia. Sotto quelle bandiere, potrei militare anch’io. E non avrei più paura.