Libertà di parola e dovere di coerenza


Qualcuno mi fa presente che da molto tempo scrivo quasi solo di Chiesa e di papa Francesco in particolare. Devo riconoscere che sì, è proprio così.
Mi sono chiesto anch’io la ragione di questo comportamento, di questa riduzione del campo dei miei interessi, e mi pare di averne trovato la ragione.
La ragione vera starebbe, secondo questa mia lettura del fatto, in questi termini. Negli ultimi diciannove mesi s’ è verificata, fra Chiesa e società civile, presa in tutte le sue accezioni, una vera rivoluzione, un rovesciamento di fronte assolutamente imprevedibile fino a pochissimo tempo fa. A causarlo, a rendere possibile questo rovesciamento di fronte, l’elezione di un papa sudamericano di origini italiane, piovuto come un meteorite ancora fumante nei giardini vaticani, che non poteva non suscitare quell’ incendio che vi si è sviluppato prendendo tutti di sorpresa e impreparati. Anch’io mi sono lasciato incendiare. E non trovando altrettanti ragioni di speranza nel mondo, mi sono chiuso in chiesa.
Come sempre succede in casi come questi, le reazioni sono state le più diverse e vanno dall’entusiasmo più profondo e convinto al pessimismo più sconfortato e deluso. Non è una novità del resto: la Chiesa ha sempre avuto due anime che si sono sempre fronteggiate e scontrate, a volte con bastante fair play, altre volte senza esclusione di colpi fino alla scomunica e alle persecuzioni. Due anime, dicevo, che di solito vengono distinte fra loro indicandole con due aggettivi tra loro antitetici: rigorista l’una, pastorale l’altra; più rigida e severa la prima, più conciliante e incline alla misericordia la seconda.
È così da sempre. Da quando il Maestro, risorto da morte, fu sottratto agli occhi dei discepoli, da quando cioè essi dovettero fare da soli, assumendosi in proprio la responsabilità delle loro scelte. Le due anime emersero fin da subito, e subito in contrapposizione: da una parte quella più severa e rigorista di Giacomo il Minore, capo della Chiesa di Gerusalemme, fautore dell’osservanza dei dettami della tradizione giudaica; dall’altra quella di Paolo, apostolo dei pagani e difensore della piena affrancazione, per i seguaci di Cristo, dai dettami della Legge giudaica e dalle prescrizioni dei rabbini, scribi e farisei. Contrapposizione che doveva essere ben dura se lo stesso Pietro non osava prendere atteggiamenti contrastanti con la posizione di Giacomo, massimo esponente della corrente filogiudaica, tanto da meritarsi l’accusa di comportamento pavido e incoerente da parte di Saulo di Tarso.
Questa contrapposizione la ritroveremo puntualmente nei secoli successivi a proposito del perdono dei peccati per il quale l’anima rigorista non seppe andare oltre un’unica riconciliazione possibile in tutta la vita (sic!); a questo rigore seppe rimediare l’anima pastorale della Chiesa, con l’indicare una grande varietà di esercizi penitenziali di libera scelta, in grado di assicurare il perdono divino ogni volta che se ne avesse bisogno, senza fare ricorso al ministro del culto. Il peccatore poteva fare tutto da solo, imponendosi da solo una riparazione per il peccato (preghiere, mortificazioni, digiuni, elemosine…).
Stessa contrapposizione per il perdono da concedere ai lapsi, i caduti nell’apostasia e nell’abiura per paura delle torture e dei tormenti del martirio, per i quali i duri e puri negavano ogni perdono, mentre altri proponevano penitenza e perdono. Si potrebbe continuare ancora a lungo, ma può bastare così. Ce n’è già abbastanza.
Orbene, in questi quindici giorni di sinodo, chi vi ha posto attenzione, ha potuto rivivere quel clima di contrapposizione che ha sempre caratterizzato i periodi di grande rivolgimento culturale e teologico che regolarmente si ripresenta ogni volta che si assiste a un momento di passaggio da una stagione dello spirito all’altra, da una forma di civiltà a un’altra. Perché oggi proprio di questo si tratta.
Si ponga mente a quanti tabù, intoccabili fino a una cinquantina d’anni fa, oggi sono crollati; a quanti valori sacrosanti sono stati abbandonati, a quanti comportamenti fino a ieri considerati disdicevoli, volgari, illeciti, peccaminosi e perfino delittuosi (reati perseguibili dal diritto penale) oggi sono diventati correnti a tal punto che nessuno, o solo molto pochi, si fa più scrupoli di adottarli e farli propri.
Proprio questa era la vera posta in gioco al sinodo sulla famiglia, indetto e fortemente voluto da Francesco per affrontare senza filtri e senza veli la grave crisi che l’istituto familiare vive in tutto l’Occidente ormai già quasi ex-cristiano.
La stampa laica, bisogna riconoscerlo, ha dedicato all’argomento uno spazio abbastanza ampio: cronache, statistiche, inchieste, interviste a protagonisti ed esperti vari hanno dato del sinodo un’informazione abbastanza illuminante, uno spazio non indifferente e un’attenzione non banale. Magari semplificando, magari badando più all’effetto che alla sostanza delle informazioni fornite, ma è indiscutibile che dalle agenzie e dalle pagine stampate, dagli schermi televisivi e dal web, ci sono arrivati non pochi contributi che hanno permesso a tutti noi di farci un’idea dell’aria che si è respirata nelle ovattate (neppure troppo per la verità) aule sinodali. Ora non resta che aspettare di conoscere quali saranno le conclusioni che ne tirerà papa Francesco, per riproporle fra un anno, perché siano ulteriormente approfondite, nel secondo tempo di questo sinodo già tanto innovatore, nell’ottobre del 2015.
Personalmente sono convinto che non gli mancheranno motivi di qualche perplessità. Che emergessero reazioni negative alla sua linea egli se lo doveva certo aspettare, ma è probabile che egli non se ne aspettasse né così tante né così dure, specie da uomini che lui stesso aveva scelto per porre a capo di uffici estremamente delicati.
Mi limiterò a un solo caso: quello del card. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina delle fede, l’ufficio che per una ventina d’anni è stato gestito dall’allora card. Ratzinger, fedelissima e inflessibile mano destra di Giovanni Paolo II, del quale ha sempre assecondato scelte e propositi (eccezion fatta forse solo per le prime due giornate di preghiera interreligiosa di Assisi, alle quali non volle mai essere presente, finché non fu lui a indire quella nel 25° anniversario del primo incontro).
Ora invece l’eminentissimo prefetto dell’ex Sant’Uffizio, si dissocia platealmente dalle posizioni dell’ufficio di presidenza e si riserva libertà di movimento secondo coscienza. Eppure avrebbe a disposizione un mezzo molto più semplice, più efficace e più dignitoso per far conoscere al mondo, senza ombra di dubbio, che lui, nella faccenda non ha parte e che anzi se ne lava le mani: “io non faccio parte della regia” avrebbe dichiarato (su laRepubblica di mercoledì 15). A uno del suo grado, basterebbe chiedere udienza al papa che non gliela negherebbe di certo e rimettere nelle sue mani le proprie irrevocabili dimissioni. Con un colpo solo farebbe tremare l’intero Vaticano, pacificherebbe la propria coscienza, si libererebbe della più scomoda poltrona dopo quella di San Pietro, darebbe prova d’essere un uomo tutto d’un pezzo. Perché un card. Müller qualsiasi può ben contestare Francesco, ma il più stretto e potente collaboratore del papa, se può ben fargli presente il suo dissenso a quattr’occhi, poi, se non ottiene soddisfazione, prima lascia il suo incarico, poi ne rende pubbliche le ragioni. Ho scritto.
O no?

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