Eugenio Scalfari, mio fratello postcattolico


Credo davvero che Scalfari abbia ragione: papa Francesco è un rivoluzionario. Un meraviglioso rivoluzionario. Come tale è un enigma: ogni rivoluzionario fa della propria vita una scommessa. La può vincere e la può perdere. Secondo l’esito cambierà anche la storia: sia quella fattuale, sia quella raccontata: la storia la scrivono (quasi?) sempre i vincitori. E la racconteranno a modo loro. Per saperne di più, bisognerà aspettare le “riletture”. Quanto bisognerà aspettare non si sa mai. Quanto a me, io voglio dare qui solo una testimonianza, la mia. Per quello che vale (per gli altri). Per me vale tutta la mia vita.
Mi dicono, e questo va inteso come un rimprovero, che da quando è apparso questo papa, io quasi non parlo d’altro. Alcuni mi fanno sapere che gli manca la mia voce sui problemi dell’attualità. In realtà sono stati tanti i miei articoli su Francesco in questi primi dieci mesi del suo pontificato, ma che volete?, era una vita che aspettavo un papa così!
E del resto, non è colpa mia se ogni giorno Francesco ne “spara” una delle sue. Guardate stamattina, 4 gennaio: “attenti a non creare piccoli “mostri” mentre cercate di reclutare giovanissime vocazioni per seminari conventi e monasteri. Queste cose le scrivevo 40 anni fa. Mal me ne incolse.
I media e non solo sono costantemente in allerta! Ieri ero in ospedale, per alcuni esami clinici. Alla mia età si impongono. Il medico che mi stava facendo una qualche ecoqualcosa, mi fa: “Che ne dice di questo papa? Davvero ci voleva. Era ridotta male la Chiesa”. Era la prima volta che lo vedevo, però sapeva che sono un prete. E subito ha sentito il bisogno di dire tutto il suo consenso alle parole, ai gesti, alla “rivoluzione” di Francesco.
In questo coro di consensi ci sono voci che meritano un’attenzione particolare, a causa del peso specifico delle loro parole. Fra queste una delle più significative è certo quella di Eugenio Scalfari, uno dei grandi maestri viventi del giornalismo italiano. Il fatto stesso di aver avuto il privilegio di aver potuto intervistare il papa, ne ha fatto un caso mondiale, rimbalzato sui media di mezzo mondo.
Ebbene proprio Scalfari incomincia a diventare lui stesso un caso, a mio modesto giudizio. È un fatto che la sua ammirazione per papa Francesco è sconfinata. Lo ha dichiarato apertamente più volte lui stesso. Giusto una settimana fa, nel suo solito articolo domenicale, annotava che non mancano quelli che «definiscono Francesco… un Pontefice rivoluzionario». E aggiungeva: «Personalmente mi annovero fra questi ultimi».
Un giudizio pesante il suo: e per giustificarlo spara una di quelle bordate, che se vanno a segno, possono affondare le navi più solide: «È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale. Di fatto ha abolito il peccato». Il seguito del lungo articolo è una giustificazione della correttezza di questa strabiliante affermazione.
Tanto strabiliante che cinque giorni dopo un teologo oggi molto considerato, Vito Mancuso, sempre sulle pagine di laRepubblica, si affretta a mettere i puntini sulle i. «A mio avviso si tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere». L’articolo di Mancuso ha la stessa collocazione ed evidenza grafica di quello di Scalfari, ma ne ha completamente smarrito la potenza visionaria. Egli comincia col dire, un po’ terra terra, che è troppo presto per dare un giudizio tanto impegnativo: «L’azione di Francesco si deve ancora sostanziare in concreti atti di governo». Ovvio. Troppo ovvio. Ma la ragione più vera va cercata nel fatto che «l’ipotetica rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nell’abolizione del peccato». Ancora una volta, ovvio. Troppo ovvio.
L’articolo prosegue adducendo le classiche obiezioni della teologia cattolica contro questa possibilità: l’idea del peccato è troppo presente nella liturgia della Chiesa, nella predicazione di Gesù, in tutta la tradizione etica e ascetica della Chiesa, per poterla abolire con un tratto di penna, sia pure papale. Ciò che Scalfari può condividere di Nietzsche (autore a lui molto caro: Al di là del bene e del male) non si adatta assolutamente ai cattolici. Men che meno a un papa. Verissimo. E però…
E però a me pare che questa volta Mancuso sbagli completamente bersaglio. Che prenda per vero un povero leone di pietra. Io non posso credere che Scalfari, uomo abituato a ragionare di fino sui testi più ardui della filosofia; introdotto da anni e anni di buone frequentazioni cattoliche (si pensi solo alle sue lunghe appassionate interviste a Carlo Maria Martini) e ai più gravi e attuali punti di incontro e di scontro fra pensiero laico e pensiero cattolico, possa essere inciampato con tanta leggerezza in una svista così enorme (e banale al tempo stesso) come quella che Mancuso rimprovera al fondatore di laRepubblica.
La mia perciò è una lettura del tutto diversa da quella di Mancuso: Scalfari si pone qui (e io non saprei nemmeno dire se lo fa con piena consapevolezza lui stesso, ma si sa bene che spesso le reazioni della storia possono essere molto diverse da quelle che sono le intenzioni di chi la storia la fa in prima persona) come una delle diverse pietre miliari nella storia del cristianesimo, o forse del metacristianesimo: con lui potrebbe incominciare l’era di un cristianesimo post-cattolico, un cristianesimo che accanto al cristiano innamorato del suo Dio, contempla anche la coesistenza del cristiano ateo innamorato di Gesù di Nazaret, del Gesù uomo, integralmente, totalmente uomo. Uomo da proporre come un nuovo tipo di umanità, che del Vangelo di Gesù di Nazaret accetta tutto ciò che va oltre l’uomo lupo per l’uomo di Plauto e di Hobbes, oltre l’uomo alla sola dimensione economica di Wall Street e della City di Londra; oltre l’homo ludens et epulans alla Trimalcione cui ci stava abituando la volgarità di tanti politiconzoli arrivati a una qualsiasi poltrona dei palazzi romani e della più avida e famelica provincia italiota.
L’«importante intuizione» (Mancuso) di Scalfari, sta proprio qui: papa Francesco non è più ossessionato dal peccato, ma è sommamente interessato ai peccatori. Francesco l’ha ridetto proprio ieri: «L’uomo che non pecca non è uomo». «Si accolga il peccatore, non il corrotto». Istruttiva l’Evangelii Gaudium: la parola peccato non è quasi mai nominata: solo 15 volte in 256 pagine e in 288 capoversi numerati. Nella maggioranza dei casi si tratta di citazioni bibliche o di autori religiosi. I singoli peccati o i peccati dei singoli, non lo spaventano. È la scelta dell’ingiustizia come programma che lo indigna. Il cristiano è un peccatore che combatte il peccato. Così io sintetizzerei il pensiero di Francesco. Sapendo poi, che quando avrai peccato, ci sarà sempre il perdono.
No certo: Francesco non dirà mai “non esiste il peccato”. Scalfari usa una formula efficace: «il papa non nega i dogmi: semplicemente non ne parla». Riferisce che il papa gli ha detto, in privato: «Dio non è cattolico ma universale» (strana incongruenza, dal momento che cattolico è il termine greco per il latino universale).
Gli ha detto anche «Dio è di tutti e ciascuno lo legge a modo suo».
È ciò che io chiamo cristianesimo postcattolico. Scalfari potrebbe esserne un corifeo. Ma accetterebbe?
Comunque, se non è rivoluzione questa!

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