Dialogo (a distanza) con Chiara Frugoni: chi fu S.Francesco?


Chi si interessa appena un poco di Medioevo e di San Francesco ha certamente sentito parlare di Chiara Frugoni, una delle grandi firma della storiografia italiana sul Medioevo. Una firma, la sua che il mondo intero ci ammira.
Poiché anch’io qualcosa di lei conoscevo, soprattutto in relazione alla querelle sulla storicità delle stimmate di Francesco, appena ho visto su laRepubblica del 19 gennaio u.s. la sua intervista rilasciata ad Antonio Gnoli, la prima cosa che ho fatto fu di ritagliare i due fogli che la riportavano. L’avrei letta con più comodo. Quel giorno è venuto. Ma di tutte le cose in cui in essa si parla, giusto su un paio mi soffermerò. Ma di primaria importanza.
La Grande Signora della storiografia italiana ha subito mostrato di saper colpire duro l’avversario, sia al bersaglio grosso sia a quello piccolo.
La prima a farne le spese è la figura del padre, una figura che dovette avere, prima sulla piccola e poi sulla giovane Chiara un’ascendenza devastante. Eccone alcuni passaggi.
«Sì, la mia infanzia compendia la stranezza e il dolore, il sacrificio e la crudeltà». È tutta su questi registri che viene suonata la strana partitura della sua infanzia, fino al suo decimo anno: «Tutto quello che mi è accaduto fino ai dieci anni si è svolto… tra il paradiso e l’inferno».
Divisa e in qualche modo contesa fra due mondi senza comunicazione fra di loro: «…tra due società. Tra quella dei nonni materni, la parte ricca, e quella dei nonni paterni: povera, indigente, dignitosa. Le due famiglie non si sono mai toccate. Mai un abbraccio, mai una festa celebrata in comune».
Con lei, bambina, nel mezzo. Mentre il padre, egli stesso esimio medievista, studiava e lavorava a Roma, la piccola Chiara viveva a Brescia, in una bella casa con la madre. Dunque con la parte ricca della famiglia. Malgrado l’agiatezza la casa era guidata in modo gretto, assurdo. Così il nonno materno, molto bigotto, sognava per la nipote un futuro di badessa. Anche per questo l’aveva affidata alle suore. «Era questo il loro tratto crudele», annota oggi, con rassegnato distacco la grande storica.
È qui che ci arriva il primo schiaffo in piena faccia, almeno per quelli come me, che credono ancora in certe cose.
Dalle suore «mi trovai in una scuola assurda e folle… Sì, quelle suore, ossessionate dal sesso e dalla vita, volevano che avessimo delle visioni. Ci dicevano che se non avessimo visto l’ostia animarsi saremmo state dannate. Passavo il mio tempo nella penitenza e nella preghiera. Portavo il cilicio a insaputa dei miei… Le suore non voleva che raccontassimo in famiglia ciò che accadeva a scuola. Ci minacciavano e al tempo stesso ci dicevano che eravamo delle elette. A sette anni conoscevo il significato del peccato mortale e veniale, cos’era sacrilego e cosa non lo fosse…Vivevo quel mondo con una profonda angoscia».
Un giorno in particolare rimase impresso nella sua mente di ragazzina, quasi una dolorosissima esperienza mistica: «Ricordo che un giorno giunsi sulla piazza del Duomo di Brescia. Completamente vuota. Alle due avrei dovuto ritornare a scuola. Ero sola con una cartella pesantissima e, in quel momento, pensai che la mia infanzia era finita. Sentii montare in me una disperazione fortissima e al tempo stesso un senso di ineluttabilità per ciò che stava accadendo». Ma di ciò nessuno se ne accorse: «I bambini mascherano bene». Quanto ai suoi, avevano altro a cui pensare.
Difficile immaginare qualcosa di più doloroso per una bambina intelligente e sensibile come la piccola Chiara, divisa, par di capire dalle sue parole, più che tra padre e madre, fra nonni paterni e nonni materni. Un padre terribile a Roma e una madre casalinga felice a Brescia nel suo mondo. Un padre che da lei pretese il massimo ma fece di tutto per ostacolarne la carriera accademica, arrivando a scrivere una lettera al Rettore della Normale di Pisa per dirgli che la figlia era inadatta alla ricerca. Una figlia comunque che solo dopo la morte del padre ha trovato la forza e il coraggio per scrivere e per pubblicare qualcosa.
Tralascio tutto il resto dell’intervista, la parte dedicata alle ricerche e all’opera della scrittrice, per arrivare alle ultime battute della stessa.
L’intervistatore azzarda la domanda: «Posso chiedere se crede in Dio»?
La risposta è tale da lasciarti senza fiato: «Dovrei? Dopo quello che mi è accaduto penso che le suore furono un’eccellente scuola di ateismo. Ho smesso di credere verso i 15 anni».
Una mazzata. Proprio: una mazzata. Mio Dio, come poté essere mai? Una donna che dedicherà la sua vita a studiare Francesco, il più cristico fra tutti i santi innamorati di Cristo, il più a lui somigliante, a giudizio universale la sua copia più fedele! E con quel nome poi, Chiara! Il nome della donna che fu la più vicina a Francesco – quasi un segno del destino, una vocazione per chiunque altro: che a Francesco ha dedicato l’intera vita a studiarlo, a indagare fra le pieghe più riposte della sua storia, la storia di colui che del Cristo fu l’immagine più perfetta, ammirata, amata in tutta la storia dell’umanità…
Eppure la risposta della Frugoni è per me confortante, perché va nel senso del pensiero che sono andato elaborando in un paio di articoli di queste ultime settimane, nei quali andavo proponendo un’altra via al Cristo: un cristianesimo postcattolico o postdogmatico che dir si voglia. Che del cristianesimo abbraccia e accetta tutti i valori, pur non potendone accettare i dogmi.
Ecco la sua risposta: «La pratica francescana o le parole del Vangelo non hanno bisogno dell’aldilà. Valgono per noi, per il nostro mondo. Per me sono dei buoni modelli… Lo zio Gianni…mi regalava per le feste dei piccolissimi giocattoli. Diceva che non avevano avuto il tempo di crescere. E che io avrei dovuto prendermene cura (per farli crescere, n.d.a.). Ecco mi piace pensare che quella bambina di allora abbia imparato ad applicare quella piccola lezione su tutto», conclude la sua intervista la professoressa Frugoni.
Risulta chiaro, da queste ultime illuminanti parole, come l’illustre studiosa trovi nella vita, nelle parole, nell’esempio e nel modello di Francesco – e attraverso lui nel modello cristiano – un modello vincente e una proposta convincente per tutti i mali e i problemi dell’uomo, credente o non credente che sia.
Il problema sarà ancora una volta nella fede e nella pazienza del credente: non tanto nella professione di fede, quanto nella fede nella fecondità dell’idea, e nella pazienza dell’aspettare che “i piccoli giocattoli dello zio Gianni possano crescere e diventare finalmente grandi”, quando il giocattolo smetterà d’essere tale per diventare un prodigio per sé stesso, di genialità, di abilità, di invenzione, capace di svelarti la ragione per cui è nato, di assolvere la funzione per la quale è stato pensato, per rivelarti la realtà alla quale voleva rimandarti, così che il dono diventi profezia o didaké (insegnamento): fa questo e vivrai.
Dovremo dire allora che credere o non credere sia la stessa cosa? No certo! Credere o non credere, al di là dell’aiuto che ti offre, serve anche a dare sapore alla tua vita. Sapere di non essere soli, aiuta – e come! – a sperare e ad aspettare. Perché introduce nella tua impresa la variabile (essenziale) dell’amore. Perché l’amore ha sempre bisogno di un TU. Senza il TU resta, ahimè troppo sola, l’idea. Troppo poco per vivere. Meno ancora per morire per essa.