Ognuno ha l’Halloween che si merita


Sono appena suonate le ore 22 di questo 1 novembre 2013, e ora le campane taceranno fino alle 7 di domattina 2 novembre. La letizia della festa di tutti i Santi cederà il passo alla mestizia del 2 novembre, il giorno del ricordo di tutti i Defunti. Ieri notte, a quest’ora impazziva (si fa per dire) la notte di Halloween, con i ragazzetti e le ragazzette in maschere orripilanti di cadaveri ambulanti, crani sdentati, streghe e fattucchiere evocanti cadaveri e fantasmi buontemponi che ti chiedono se preferisci sottoporti al gioco dello scherzetto e del dolcetto.
Oggi la stampa dice che questa festa dell’horror dozzinale e pacchiano ha registrato un successo nettamente inferiore rispetto agli anni passati e che rispetto all’anno scorso i consumi per questa notte sono stati di circa il 20% in meno. Detta così, semplicemente, una buona notizia; ma ci potrebbe essere l’alibi della crisi. Se questa fosse la vera causa del calo, svanirebbe la speranza di poter far risalire a un rinsavimento dei folli il merito d’un consapevole rifiuto d’una delle più inutili e futili e ridicole feste che la fantasia umana ha saputo creare per esorcizzare il suo terrore di fronte alla morte.

Il lettore avrà già capito che io, pur non apprezzando affatto questa festa “nordica”, neanche mi straccio le vesti se vedo qualcuno che va in giro o che viene a casa mia ponendomi la fatale domanda: «scherzetto o dolcetto».
So di preti che amano tuonare contro questa dissacrazione della festa di tutti i Santi tanto cara ai cattolici della tradizione. Uno sdegno che riserverei a cose più serie.
Intanto è una legge ineluttabile: le feste sono come i pozzi d’acqua nel deserto. Se non si seccano le vene che li alimentano, nessuno li murerà o li riempirà mai di terra, finché ci saranno uomini che avranno sete. Anche noi, i cristiani, le nostre feste le abbiamo trovate belle e pronte presso altre tradizioni civili o religiose e le abbiamo adottate, fatte nostre, trasformate nel senso e nei contenuti. In pratica le abbiamo messe a servizio di altri “miti” o racconti o messaggi che noi stessi avevamo ricevuto e che volevamo trasmettere ad altri, a chi sarebbe venuto dopo di noi. Per fermarci solo ai casi maggiori, la pasqua (sempre in coincidenza, ma non in contemporanea) con la pasqua ebraica (essa stessa, in origine, in relazione alle feste di primavera degli agricoltori e dei pastori); il natale (ricalcato sulla festa del Sole dei pagani); la pentecoste (letteralmente cinquanta giorni dopo la pasqua, ma per gli ebrei i cinquanta giorni che Mosè aveva passato sul Sinai in occasione della consegna del decalogo): la pasqua rosa (il nome dovuto all’uso pagano di una pioggia di petali di rose bianche che in maggio veniva praticata nel Pantheon facendoli cadere attraverso il grande lucernario che conclude la cupola del grande tempio pagano, poi trasformato in chiesa e ora in sacrario funebre).
Ritenuta festa di origine celtica nella sua forma attuale, fatta propria dagli americani che le han dato il carattere attuale di festa ludica d’autunno, ha finito con l’essere associata, grazie alla tradizione di dare forme orripilanti alle zucche, a una specie di invasione da parte degli inferi, e dunque dei morti, nel mondo degli uomini. Quale migliore collocazione allora, nel calendario, che farla coincidere con i due giorni che il mondo cristiano dedica al culto dei morti. Ridiamoci su, e la morte non sarà più un problema, non ci farà più paura. Semplicemente, la morte non sarà più una cosa seria se avremo il coraggio di riderci sopra.
La storia della festa di Tutti i Santi è già attestata per la fine del sec. IV o inizio del V, in Oriente (Antiochia, Costantinopoli), con l’avvertenza che quando allora si parlava di santi, si pensava essenzialmente ai martiri, cioè a quelli che avevano versato il sangue per testimoniare la loro fede in Cristo. Ma l’epoca di quella festa era piuttosto la primavera, più precisamente il maggio. Solo più tardi, sotto Gregorio IV († 848) si sceglierà l’autunno inoltrato per fissarne la memoria liturgica, forse proprio per mettere insieme l’idea dell’anno che volge alla sua fine con l’idea della fine della vita terrena: una fine però che non sarà per sempre, ma solo per risorgere a una vita più vera proprio perché ormai sarà eterna.
Ora, quale occasione più ghiotta per la mentalità post-cristiana (o neo-pagana che dir si voglia) della festa dei Santi per sorridere o per sghignazzare sulla detestatissima Sorella Morte di San Francesco d’Assisi? Essa ci vuol spaventare? E noi ci ridiamo sopra, la sbeffeggiamo dimostrandole così che non abbiamo nessuna paura di lei e dunque le saremo ancora superiori, vincitori su chi pretende di vincerci sempre.
Ogni tanto qualcuno mi racconta di parroci che minacciano sfracelli contro chi partecipa al giochino. E in questo caso mi domandano che ne penso io. La mia risposta è questa: la festa ha un carattere certamente dissacratorio, dunque chiaramente anti, ma chi ci scherza su, non vuol negare niente, vuole solo divertirsi un po’. Lo considero un gioco molto più stupido che malvagio.
Ma se qualcuno volesse domandarmi che ne pensi io del mistero vero che soggiace a questa piccola querelle, a questo scippo di feste da parte del mondo emergente ai danni del mondo ancora imperante, allora dovrò dire che a me dispiace molto che il mondo voglia ridere su qualcosa su cui tutto si può dire e fare, meno che ridere. Mi pare, oltre che stupido e dissacratorio, anche irriverente e addirittura blasfemo.
Non esagero: non manca infatti chi pensa che la prima forma di religiosità che la storia umana ha conosciuto, sia stato proprio il culto dei suoi morti, questo bisogno di sentirceli ancora vicini, non persi per sempre, o almeno non persi del tutto: già il Foscolo lo cantava (e non era un bigotto):

«se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli
».

Io non affronterò qui il problema dei problemi; troppo poco lo spazio e forse troppo inadeguata la mia voce, per un problema di tale dimensione. Mi accontenterò di fare solo un po’ d’antropologia culturale molto spicciola sull’argomento.
Come si può ridere e scherzare sul dolore di chi ha dovuto celebrare i funerali su centinaia di morti di cui le spoglie mortali non erano più nemmeno presenti, perché già inviate ad altre destinazioni per la tumulazione? Sulla disperazione di chi grida “a chi o dove andrò a depositare un fiore, se non mi ridate neppure il suo corpo?”.
Ma del resto perché meravigliarsene? Stiamo assistendo a molto di peggio, in tutti i campi. Fateci caso: che conta più un corpo ancora vivo? Di che quale mercimonio siamo stati capaci di farne oggetto? E se un corpo non vale più niente da vivo, perché dovremmo darcene pensiero da morto?
Così io mi tengo stretta la mia magnifica, dolcissima fede che mi permette di vivere ogni giorno con tutti quelli che mi hanno amato da vivo – che grazie a Dio non sono stati pochi –. Con tutti loro il mio arrivederci è in quello che noi chiamiamo cielo. Anche se non so cosa sia. So solo che sarà. E sarà bellissimo. Perché l’ha detto Lui!