Non si muore mai soli né mai solo una volta


Sabato scorso, 13 aprile, avevo appena finito di presentare a Marsciano il mio libro Ricomincio da 65, freschissimo di stampa, che racconta come sono sfuggito a “sorella Morte” che ci dev’essere rimasta molto male vendendomi sfuggire all’arpione che mi aveva lanciato infilzandomelo nel fegato. Un arpione noto con la sigla HCV: epatite C.
Stavo gustandomi il buon esito della serata, quando uno dei presenti mi informa che giusto un minuto prima aveva saputo della morte di Luigi Santibacci, per tutti Gigi, Gigino ancora – e sempre – per me.
Eravamo stati inseparabili compagni di fanciullezza, fino all’età di 13 anni per me, 11 per lui. Poi le nostre strade si divisero. Io in seminario (Perugia e Roma), lui ragioneria a Perugia. Rimanemmo buoni amici, ma la strettissima solidarietà e complicità dell’incipiente adolescenza era finita. Poi io parroco a Deruta, lui ragioniere al Comune di Marsciano. Fummo ancora uniti dai nostri malanni al fegato, che ci hanno portato fino al trapianto, lui a Pisa, io a Palermo. In questo però io ho avuto forse più fortuna di lui, almeno finora. Ci scambiavamo i saluti tramite mio fratello Egisto.
I nostri rapporti si sono ristabiliti solo mercoledì 19 dicembre 2012, quando io feci il mio “rientro” a Marsciano, deciso a ritagliarmi uno spazio nella vita della mia cittadina natale.
Gli fu chiesto di presentare la serata che avrebbe avuto luogo al rinnovato Teatro Concordia. Egli accettò con gioia. Un “mestiere” che conosceva bene avendolo esercitato innumerevoli volte con i più svariati personaggi del mondo dello sport e non solo, con i quali aveva cercato di dare lustro a Marsciano (una benemerenza sottolineata dal sindaco Todini durante il funerale di Gigi). Fu una bella serata e fummo davvero felici di esserci finalmente ritrovati. Proponemmo di restare in contatto.
Nei due mesi successivi non accadde nulla. Seppi poi che una rovinosa caduta (un giramento di testa, mi disse) lo aveva profondamente prostrato. Ristabilito il contatto potei fargli una visita. Gli feci omaggio del mio ultimo libro. «Mi hai fatto felice» mi disse al momento di lasciarci. Promisi di ritornare presto a trovarlo. Tornai una decina di giorni dopo. Era molto peggiorato. Quattro giorni dopo era morto.
Fate il conto: dal ’64 al 2013 fanno esattamente 49 anni: per rivederci s’è dovuto aspettare proprio gli ultimi 3-4 mesi di sua vita. Un colpo di fortuna? Io credo piuttosto a una carezza di un Amore previdente e provvidente: di Qualcuno che ci ama. Vana fantasia per qualcuno, per altri può ben essere una consolante verità. Io sono fra questi. Non è stata neppure la prima: molte volte nella mia vita ho avuto l’occasione di gustarne la delicatezza.
Quella sera stessa sono andato a far visita alla salma e alla famiglia del carissimo amico, e su di lui ho compiuto gli estremi riti previsti dalla liturgia cristiana (da ciò che ho scritto sopra, anche chi non mi conosce avrà capito che sono un prete): aver potuto io benedire la salma dell’amico e poi celebrarne le esequie, m’è sembrata proprio un’altra carezza del buon Dio. Celebrando la messa funebre, ho avuto anche modo di dettare io stesso un pensiero di riflessione sul senso del rito e sul mistero della morte cristiana. Ciò che segue è l’essenza di quello che dissi allora.
Iniziai citando san Francesco d’Assisi: «Laudato si’, mi Signore per sora nostra morte corporale» e chiedendomi come possa essere mai possibile lodare Dio per questa durissima realtà alla quale «nullu homo vivente po’ skappare»: la morte, che basta nominarla perché gli uomini ne tremino, ed evocarla perché facciano scongiuri. La morte che è la fine di tutto, la vera fine di tutto, come si pensa e si dice.
Ma non ne aveva paura Francesco, come non dovrebbe averne nessun cristiano, nessuno che creda veramente che Gesù, il Signore, è veramente risorto. Perché da allora non è stato più vero che la morte è la fine di tutto, ma il suo esatto contrario: l’inizio del SEMPRE (vita per sempre) e del MAI (mai più la morte).
Perché da quando il Signore è risorto, vita e morte sono due concetti che non hanno più lo stesso valore di prima, ma sono divenuti l’esatto contrario di ciò che erano prima. Perché morire, da allora, non significa più un addio che è per sempre, ma un arrivederci, un precederci, da quando Gesù ha detto al Padre: « Io voglio che dove sono io siano anche quelli che tu mi hai dato»(Gv 17,24), e da quando ci ha rassicurati dicendoci: «Io vado a prepararvi un posto, e quando ve lo avrò preparato, tornerò e vi porterò con me, affinché dove sono io, siate anche voi» (Gv 14,3).
Da allora non fu più vero che si muore una volta sola, ma è vero invece che si muore in tante volte, “ pezzo per pezzo”, quanti sono i pezzi del mio cuore, della mia anima, quanti sono gli oggetti del mio amore: quando mi muore un genitore è un pezzo di cuore che si stacca da me, così quando a morire è un fratello, o il coniuge, un amico che ha condiviso la mia vita, un amore che era una speranza e un progetto di vita; più grande ancora è il pezzo di me che mi abbandona quando mi muore un figlio, una figlia. A ogni pezzo di noi che si stacca noi ci sentiamo più soli. Più poveri. Alla fine può accaderci anche di maledire la Morte che di tutti si ricorda meno che di me, che mi lascia a sopravvivere a tutto ciò che mi fu caro. Solo, disperato, morto già prima di morire. Così potrà essere se tutto il mio orizzonte si riduce alla terra e a un cielo spento.
Ecco perché beato è colui che ha incontrato Cristo e in lui ha creduto: i discepoli di Emmaus e la Maddalena e lo stesso Tommaso che ha voluto mettere il suo dito nel foro della lancia prima di dire “credo”. Essi sanno che il loro cielo non è affatto spento, ma vive della vita di tutti quelli che lo hanno preceduto e che lassù lo aspettano per ricostituire un giorno l’unità che la morte aveva spezzato. Lassù si ricostruirà l’unità che la morte aveva infranto e la vita tornerà a essere piena, e il cuore non sarà e non avrà più freddo. E sarà quello il giorno in cui «Dio asciugherà ogni lacrima e non vi sarà più la morte né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate… e tutte le cose saranno nuove» (Ap 21,4-5). Così sarà, Gigino, vedrai, anche per noi. e su quei prati di nuvole candide, giocheremo come quando da bambini giocavamo su quel campetto slivellato che era il nostro piccolo regno, il nostro Far West, il nostro stadio olimpico e il castello delle nostre storie di cappa e spada. A ritrovarci lassù, Amico.

P.S. E poi, sai che ti dico: Non hai mica perso molto ad andartene proprio ora. Ti sei risparmiato l’indecente vergognoso rivoltante spettacolo che la politica più corrotta e immorale possa produrre al mondo. Mi vergogno d’aver votato per una qualsiasi di quelle masse di perdigiorno strapagati e mai sazi che hanno usurpato da Platone il nobilissimo termine di politici. Proci dovevano chiamarsi.
P.S al P.S. Mi siete tutti testimoni: ho scritto Proci (Omero, Odissea, l. XIII).