In piazza San Pietro: provocato a pensare


Mercoledì c’ero anch’io in piazza san Pietro a dare l’addio a papa Ratzinger: per la storia e per tutti e ormai per sempre papa Benedetto XVI. Perché così sarà ricordato. Chi volete che si ricordi un giorno il suo cognome, salvo i cultori di storia della Chiesa? Quanti di chi mi legge sanno come si chiamavano Gregorio VII o Giulio II o Pio V o Pio IX? E notate che ho nominato qui solo grandi papi, non mezze figure.
Così sarà anche di lui, del tedesco Joseph Ratzinger, già prefetto di ferro della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex Sant’Uffizio terrore di eretici e di streghe? Giovanissimo teologo era venuto a Roma al seguito del card. Frings, arcivescovo di Colonia. Si fece subito notare per intelligenza e cultura teologica.
Insegnò anche a Tubinga, chiamatovi da Hans Küng, giovanissimo anche lui: furono due punte di diamante di quella nuova teologia che avrebbe spazzato via la supremazia della scuola romana, che nella preparazione del concilio aveva intasato di schemi preparatori (ben 72!) la segreteria del Concilio e le scrivanie dei 2300 vescovi di tutto il mondo che dovettero studiarseli per poi vederli quasi tutti (più di 60) finire al macero. Di quei due giovanissimi teologi uno divenne il pontefice massimo della contestazione teologica in chiave conciliare (lo svizzero Küng); l’altro, (il bavarese Ratzinger) fu prima arcivescovo di Monaco di Baviera (chiamatovi da Paolo VI), poi prefetto dell’ex Sant’Uffizio, (sotto Giovanni Paolo II), e infine il sommo pontefice dell’ecumène cattolica, successore di San Pietro sulla cattedra di Roma.
Io osservavo la folla emozionata, commossa, che tifava tutta per lui, per il timido Benedetto XVI, che dapprima aveva un po’ deluso tutti, tanta era la differenza dal titanico Giovanni Paolo II, poi però era stato accettato per l’umanissima debolezza del vecchio stanco e gravemente provato dalle difficoltà di un governo cui l’uomo di studio e di ordine non era evidentemente preparato. Aveva accarezzato il grande sogno della riforma in senso evangelico della Curia romana, ma il tempo era passato, e il trapianto non era riuscito: il corpo malato aveva riconosciuto il corpo estraneo e ora lo stava espellendo. Soprattutto lo sguardo rassegnato tradiva la delusione di chi aveva tanto desiderato e pregato di vedere il tempo messianico del grande rinnovamento della Chiesa, ma ora il suo tempo era passato e ormai era evidente che quella visione non parlava né di lui né per lui. Nessuna macchina di potere può allearsi col Vangelo.
Vinta da quel volto e da quello sguardo stanco, la folla aveva solidarizzato col vecchio pastore e voleva fargli capire che essa era con lui: questo dicevano le voci e le scritte leggibili nella piazza. “Resta” gli dicevano. Essi avevano capito infatti che il suo fallimento, era il fallimento di una generosa speranza, ma potrà mai la Chiesa rinunciare alla speranza di poter salvare il mondo? Quegli applausi, quelle grida, quegli inviti erano altrettante implorazioni a restare, era un dirgli “fallo per noi, perché possiamo continuare a sperare nella Chiesa”.
Poi il papa lasció la sua seggiola, risalì su quella strana carrozza che lo portò ancora un po’ a spasso tra la gente e scomparve per l’ultima volta dagli occhi di chi restava a sognare e a rimpiangere una Chiesa nella quale il ritiro di un uomo, provato dal peso degli anni, dalla durezza del lavoro e dalle immani responsabilità che aveva accettato di lasciarsi imporre, potevano ancora rappresentare un dramma invece che un invito alla festa.
Allora m’è venuto da pensare che fra poco più d’un mese un altro Capo di Stato, anche lui molto amato dal popolo italiano, lascerà un altro Palazzo: lo lascerà anche lui con la grave consapevolezza di lasciare un Paese in condizioni difficili, delicatissime e in qualche modo assolutamente nuove. Anche lui aveva fatto di tutto per rimettere in carreggiata il Paese, ma anche a lui gli uomini han saputo rendere vano il suo lavoro.
E io che ci facevo là in mezzo? Per applaudire? Un po’ ho applaudito, certo non molto. Anzi molto poco. E allora? E ho capito che ero andato per sentirmi provocato a pensare. E per prima cosa m’è è venuto in mente il rito medievale della stoppa che bruciava davanti agli occhi del nuovo pontefice: uno dei riti più suggestivi della storia della liturgia dell’incoronazione papale. Una vampata di pochissimi secondi e la voce del frate incappucciato che ammoniva “sic transit gloria mundi” (così passa la gloria del mondo). Per Benedetto XVI era passata anche prima che la Parca tagliasse il filo a cui la sua vita e la sua corona erano appese.
Ma molto più che al suo passato e al suo presente, pensavo al futuro della Chiesa. All’ormai imminente conclave, a colui che sarebbe risultato eletto e a ciò che la Chiesa si aspetta da lui.
Chi sarà il nuovo papa? Che farà per la Chiesa? Che strade vorrà percorrere? Aprirà nuove piste ai pionieri d’una nuova evangelizzazione o si ostinerà a pensare che basterà riproporre le vecchie del Catechismo per gli adulti (già vecchie anche se riformulate solo pochi anni fa) per recuperare le tante generazioni che nel frattempo le hanno voltato le spalle? In altri termini: vedremo accentuarsi le fughe, o vedremo finalmente la Chiesa riaprire le sua braccia, le sue porte e il suo cuore ai tanti cristiani che se ne sono andati perché si sono sentiti rispondere troppe volte il suo “non possumus” che li ha allontanati dall’altare di Cristo e dunque da Cristo stesso?
So bene l’obiezione: La Chiesa non può rinnegare sé stessa: e le sue parole, anche quelle che proibiscono e interdicono, sono parte di lei. Irriformabili. Alla Chiesa non è stato dato un potere senza limiti. Quel potere si ferma davanti alla Parola contenuta nella Scrittura e nella tradizione della Chiesa di Roma, della chiesa di Pietro. Contro quella Tradizione (con la T maiuscola) la Chiesa non ha potere. Mai la potrà cambiare. Ma tutti sanno, a Roma come altrove nel mondo: che le verità più intoccabili non sono sempre le più vere, ma proprio quelle che non si intende toccare. Qualche esempio? Non c’è che l’imbarazzo della scelta, e dato che siamo in tema limitiamoci all’elezione dei vescovi e dello stesso papa.
Quanti sanno per esempio che per ben nove secoli, mai un vescovo già vescovo poté diventare papa, passando da una qualsiasi diocesi alla diocesi di Roma? Pena la scomunica (Concilio di Nicea). Ora è la regola.
Quanti sanno che fino a XIII secolo non c’era nessun bisogno di essere cardinali o vescovi, e nemmeno preti e diaconi, per diventare papi? Celestino V (quello del gran rifiuto, che poi si dimise) era un semplice prete eremita quando fu ordinato vescovo di Roma e dunque papa. Prima di lui, Gregorio X era solo un diacono quando incoronato papa (1271). Oggi sarebbe impensabile.
E quanti sanno che il grande papa Sant’Innocenzo I ( festa 28 luglio), nel 401 fu consacrato papa per succedere a Sant’Anastasio I (festa 19 dicembre), che niente di meno era suo padre? Padre e figlio tutt’e due papi e santi, uno dopo l’altro! Non sono storie dei Borgia: è la grande storia della Chiesa. D’una Chiesa grande e dimenticata. E poi dice che non si può cambiare!

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