Francesco & Francesco. Amare la povertà per sconfiggere la povertà


Mica un bel paradosso? Sì, è un bel paradosso. Quasi un ossimoro. Me l’han fatto spesso presente, più di uno. E io ho risposto sempre allo stesso modo: “Perché? Ragioniamo! Non è l’eccessiva ricchezza di pochi che avvelena la vita dei poveri? Non è l’accumulo di denaro in poche mani che rende miserabile la vita di innumerevoli milioni di uomini normali nel mondo?
L’obiezione è sempre la stessa: chi rischia, l’imprenditore, rischia del suo. È giusto che il suo rischio venga ricompensato.
È una grossa baggianata! Perché, l’operaio non rischia? Se non il capitale, spesso rischia la stessa vita. Che vale un po’ più del capitale. Chi si cala in una miniera, chi si arrampica su torri impalcature e tralicci, chi va a soccorrere le vittime d’un incidente in alta montagna, chi si prende cura d’un malato infettivo, chi si espone alle radiazioni nucleari in una centrale gravemente danneggiata, come a Cernobil o come recentemente in Giappone, lui, loro, non rischiano? E come! E quanto! La vita stessa.
Ora i due grandi apostoli di questa pur amara verità ce l’hanno ripetuta insieme, uniti in un duetto di straordinaria efficacia da Assisi: lui il Poverello di sempre, e l’altro, il nuovo apostolo della povertà della Chiesa, dalla piccola piazza d’Assisi, da questa agorà dalla quale la voce umana può ormai raggiungere ogni angolo della Terra grazie alla straordinaria voce d’un Poverello che pure non della povertà della Chiesa aveva fatto il suo cavallo di battaglia, ma del suo amore e della lode di Madonna Povertà.
Tanto se n’era innamorato, che l’aveva scelta come compagna di viaggio e di vita nella traversata di questo mondo creato, nel quale tutto ciò che è uscito dalle mani del Creatore è bello e buono finché non giunge e non passa per le mani dell’uomo, sempre pronto a bruttare e a rovinare tutto ciò che passa per le sue mani. E non certo per incapacità o imperizia, ma per pura avidità e istinto di possesso con estrusione di ogni altro fruitore, guardato sempre come concorrente e potenziale rivale o addirittura nemico.
Ora questa voce ne ha finalmente trovata un’altra in grado di farle un controcanto che della prima non sia negazione, ma accompagnamento capace di sottolinearne ed esaltarne la bellezza e la freschezza, potenziandone e moltiplicandone le virtualità e le possibilità armoniche. Perché se il primo Francesco s’era limitato ad esaltare la bellezza della scelta personale e di gruppo della povertà come stile di vita, senza far propri i toni aggressivi di tanta letteratura e predicazione pauperistica del suo tempo (che faceva dei vizi e della ricchezza della Corte papale e della Chiesa in genere il suo cavallo di battaglia e la principale ragione del suo successo), il nuovo Francesco sembra distinguersi dal primo proprio per questa sua volontà di portare la Chiesa intera ad amare e a scegliere il modello di povertà come segno distintivo e profetico del nuovo tempo della Chiesa. Di una Chiesa che sapesse essere più fedele e generosa nel seguire l’esempio del suo Fondatore, quel Gesù di Nazaret che per primo aveva osato dire: «beati i poveri e guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc 6,20.24).
Ed è certo notevole il fatto che mentre il Poverello d’Assisi, pur dovendosi adattare a qualche aggiustamento in corso d’opera, non sembrò rappresentare una troppo grave minaccia per la pur occhiuta e assai gelosa Curia Romana che l’avrebbe senza dubbio respinto e condannato se vi avesse trovato qualcosa di sospetto, oggi, al contrario il nuovo Francesco sembra destinato a incontrare più d’una difficoltà proprio all’interno di quella Curia che da tempo ormai si sentiva il vero centro effettivo del potere nella Chiesa. E si sa bene che niente è più geloso del Potere contro tutto ciò che lo mette in discussione nelle sue prerogative e nei suoi privilegi. E ciò è vero per ogni Potere umano, non importa se contrabbandato come tirannico, democratico, aristocratico, ierocratico e perfino teocratico!
Lo stesso papa Francesco sembra esserne perfettamente consapevole, esattamente come ne fu consapevole il suo predecessore Benedetto XVI, vecchio e stanco, e forse assai più ammalato nel suo spirito deluso e amareggiato che nel suo fisico di 86enne. Ma se Benedetto poté pensare e infine decidere di lasciare il timone della barca di Pietro ad altre mani, delle sue più forti e più giovani, il suo successore sembra ben consapevole dei rischi che corre. Per questo si dà tempo, non vuole bruciare gli esiti della sua riforma con decisioni e scelte avventate; si è dotato di un Consiglio di saggi per una riforma di grande respiro e di portata storica, capace di ricondurre finalmente la Chiesa di Cristo sui sentieri che il Maestro e Fondatore le aveva tracciato.
E lui non perde occasione per ricordarci che la Chiesa che egli vagheggia è una Chiesa povera, dei poveri e per i poveri: che non vuol dire una chiesa piagnona e mendicante, sempre pronta ai compromessi pur di sopravvivere; ma una Chiesa fedele al suo mandato di predicare innanzitutto ai poveri la buona novella, il Vangelo della carità, della pace e della giustizia; una Chiesa che non avendo privilegi da difendere e salvaguardare può raccontare e proclamare il Vangelo davanti a tutti. Perché tutti lo conoscano, e conoscendolo lo amino, e amandolo lo abbraccino, e gli obbediscano e gli diano testimonianza.
Il Vangelo può amarlo solo chi lo ha visto vivere, messo in atto. E avendolo amato per questo modo di conoscenza, si vorrà impegnare a viverlo anch’esso e a darne testimonianza anche lui, perché quell’amore dilaghi e quella conoscenza conquisti ancora altre adesioni.
Proselitismo? No davvero, «è una solenne sciocchezza» ha detto Francesco a Scalfari nella sua bellissima intervista rilasciata a uno dei grandi laici della storia italiana. Testimonianza: questo è il nome. Cristiano lo diventa solo chi ha incontrato davvero Gesù di Nazaret. Chi continua a dirsi cristiano solo perché così gli si apriranno strade che diversamente gli resterebbero chiuse, non merita quel nome.
Ero ad Assisi, ieri, in posizione abbastanza privilegiata per poter vedere e sentire, ma non abbastanza da poter cogliere ogni sospiro e ogni sfumatura di quel discorso e di quelle parole. Ho avuto l’impressione di un uomo sopraffatto dalla tristezza per le notizie che continuano a piovergli addosso da ogni parte del mondo, da Lampedusa come dalla Siria. Il suo cuore vorrebbe avere una parola per tutti, e non potendo parlare a ognuno, si limita a sospirare: ieri la vergogna, oggi una gran voglia di pianto.
Il suo volto si è disteso ed è tornato a sorridere solo quando, appena lasciata la piazza, ha potuto far fermare la macchina e scenderne di slancio: c’erano lì alcuni portatori di handicap e lui ha potuto baciarli, abbracciarli, accarezzarli. Quelli erano tutti Gesù. I veri Gesù del nostro tempo. In loro ha abbracciato tutti i poveri Gesù del nostro tempo. Il mondo ha visto e si è commosso. Ed è cresciuto nell’amore di papa Francesco; e il Gesù di papa Francesco è cresciuto nei loro cuori.
Il messaggio più grande? Questo: chi vuole che il mondo riscopra Cristo, deve solo preoccuparsi di renderlo riconoscibile nel suo modo d’essere cristiano. Solo a questa condizione gli uomini potranno riconoscerlo e amarlo. Salvando così, con la propria anima, anche il mondo in cui viviamo.

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