Elogio della vecchiaia. Pura follia o sapienza vera?


Il titolo mi aveva colpito, ma non avevo voglia di leggerlo subito.
Così l’ho messo da parte, dicendomi “un giorno o l’altro mi servirà”. Quel giorno ora è venuto. Si tratta dell’articolo di Claudio Giunta La rabbia di diventare vecchi (IlSole24ore di domenica 4 agosto u.s).
L’occasione: la riproposizione per l’Italia di un vecchio saggio (1968) del filosofo austriaco Hans Chaim Mayer, (Vienna 1912 – Salisburgo 1978), più conosciuto con lo pseudonimo francese Jean Améry, che adottò in Belgio dove s’era rifugiato dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Scoperto dalla Gestapo, nel 1943 fu arrestato e torturato e quindi internato ad Auschwitz, dove rimase fino alla Liberazione avvenuta nel 1945. Ritornato a Bruxelles scrisse saggi e collaborò con radio e televisione.
Occasione (non oggetto) di questo articolo è il suo saggio Über das Alter. Revolte und Resignation, riproposto in italiano dalla Bollati Boringhieri a titolo rovesciato: Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare. Chissà poi perché.
Intanto una domanda a cui a prima vista non so dare una risposta: perché uno, che a quanto pare non ha saputo invecchiare come appare dalle pagine dello stesso Améry e soprattutto dalla sua fine, deve rovinarsi il sangue lui, e rovinarlo agli altri che sono ormai giunti, come lui, a imboccare il tanto celebre e tanto decantato viale del tramonto?
Dieci anni più tardi infatti Jean Améry deciderà di farla finita da solo, all’età di soli 65 anni. Chi potrà mai considerarlo e proporlo come un maître à penser e più ancora à vivre et à mourir?
E tuttavia, mentre scrivo queste parole, mi rendo conto che forse c’è nel mio severo giudizio un deficit di comprensione o, Dio non voglia, d’umanità. Perché chi potrà mai valutare appieno la carica distruttiva delle torture subite e dei due anni che lo sventurato intellettuale austro-belga ha dovuto passare ad Ausschwitz, in quell’anticamera dell’inferno che il nazismo ha saputo costruire a memoria e a vergogna perenne per tutto il genere umano? Come dimenticare che anche altri uomini, pure miti e gentili come Primo Levi e come Tadeusz Borowski finirono la loro vita col suicidio (quest’ultimo all’età di soli 28 anni e solo 5 anni dopo la sua liberazione da Dachau)?
Tralasciando allora il confronto diretto con le idee e con l’esperienza vissuta dello sfortunato autore del saggio, mi fermerò piuttosto a riflettere sul mio personale vissuto, invocando solo qua e là il confronto con altri personaggi, di me ben più famosi e rappresentativi.
E se di tempo perduto e di paura d’invecchiare si deve parlare non si può incominciare che da lì, dal romanzo di Oscar Wilde, il celeberrimo Il ritratto di Dorian Gray, tragico racconto d’un bellissimo giovane che un pittore aveva ritratto in un quadro. Tanto bello il giovane e tanto bello il quadro che lo stesso giovane che aveva posato per esso, s’era perdutamente innamorato della propria bellezza e, terrorizzato dall’idea di perderla, accetta una specie di patto col diavolo: ti vendo la mia anima, ma tu trasferisci al volto e al corpo rappresentati sulla tela tutte le ingiurie che il tempo e le vicende della vita dovrebbero scaricare su di me. Patto accettato.
E così avverrà: finché quel giovane che vi è ritratto non diventerà tanto brutto che il bellissimo giovane in carne e ossa che ne era stato il modello (e che bellissimo era rimasto grazie proprio a quello scellerato patto) non ne sopportò più la vista e lo nascose in soffitta. Lo rivedrà solo qualche anno più tardi, quando la pessima vita condotta dal protagonista avrà fatto sì che quel volto e quel corpo saranno ormai così deturpati dai vizi e dagli oltraggi del tempo, che la loro stessa vista risulterà intollerabile ai suoi occhi. Fuori di sé, l’ancora bellissimo adone afferra un lungo acuminato coltello da cucina e lo squarcia da capo a fondo. Ma quei colpi, in forza del sortilegio, si rivoltarono contro il giovane che ne venne ferito a morte, mentre il quadro, finalmente liberato dalla magia negativa che lo aveva deturpato, ritrovava tutta la sua bellezza e il suo splendore. Parabola amarissima contro chi spera di sottrarsi alle leggi spietate del tempo ricorrendo ai trucchi impotenti che la nostra malata immaginazione sa mettere in azione per sfuggire all’ineluttabile.
Leggendo quell’articolo, e ora scrivendo queste prime note del mio, mi è venuto in mente, d’istinto il volto e il mito di Marlene Dietrich, per tutti l’Angelo Azzurro, una delle più idolatrate donne fatali del secolo scorso. Una donna per avere i favori, o anche solo la familiarità e l’amicizia della quale, hanno fatto follie molti magnati e potenti della Terra. La chiamavano anche, fino ad età molto avanzata (qualcosa come alla settantina), Le gambe più belle del mondo, e l’icona che ne è rimasta nell’immaginario collettivo è quella donna con le gambe rivestite delle sue calze di seta, accavallate l’una sull’altra, il lucido cilindro in testa, l’attillato corpetto nero sul busto voluttuosamente buttato all’indietro e sostenuto dalle braccia che la mantenevano in quel precario equilibrio grazie alle mani che facevano presa sul ginocchio sollevato in alto sull’altra gamba. La rivedevo, bellissima e provocante, mentre cantava Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe aufgestellt (Io sono creata dalla testa ai piedi per l’amore).
Ma nello stesso momento che la rivedevo così, la stessa pugnalata che aveva ucciso Dorian Gray s’abbatteva, distruggendolo, su quel mito dell’Eterno Femminino che nel corso della sua vita aveva avuto più decorazioni e riconoscimenti d’un Capo di Stato e collezionato amori da capogiro dell’uno e dell’altro sesso «di cui si vantava come delle sue decorazioni». Mi sono tornate in mente le impietose rivelazioni contenute nelle memorie che della madre ha lasciato l’unica figlia, Maria Riva, della quale non si sa se condannare di più la mancanza di pietà verso la vecchia madre, o se compiangerne la tristissima sorte d’essere stata figlia di quel mostro di vanità e d’egoismo.
In quei momenti l’immaginavo nel suo lussuoso appartamento sugli Champs Élysées, attaccata a un telefono che nessuno chiamava più, o impegnata, allo stesso telefono, in estenuanti scenate di gelosia col suo ultimo amante, Jean Gabin, probabilmente ormai stanco anche lui dell’ex divina, costretta a non uscire più dalla squallida desolazione d’un appartamento nel quale s’era trovata rinchiusa a causa d’una rovinosa caduta in scena, che le aveva impedito di continuare a tenere le sue trionfali tournée per il mondo. Abbandonata e dimenticata da tutti gli antichi adoratori, perennemente distesa su lenzuola assai raramente lavate, prigioniera d’un corpo che aveva incantato il mondo, ma che di quella bellezza aveva ormai perso tutto. E mi veniva in mente l’altra allucinata esaltazione, quella di Gloria Swanson nel ruolo della grande diva del cinema muto in Viale del tramonto, che per uno scherzo della memoria e dell’immaginazione, m’accorgo ora d’aver già citato all’inizio.
Ma dopo questa visita al cimitero delle Stelle cadute, mi rendo conto di non aver parlato affatto di ciò di cui avevo promesso di parlare che non ho tessuto nessun elogio della vecchiaia come il titolo prometteva. Non mi resta che dare appuntamento per domenica prossima, sempre che papa Francesco non mi costringa a cambiare programma.