Elogio della vecchiaia 2. A me mi piace. Finora…


Sono in quella che viene detta comunemente la terza età, che però sta per finire. Ancora un anno e sarò nella quarta. Credo che per tutti sia l’ultima. Se ce ne sia una quinta (ma non mi pare). A me bastano e avanzano le mie tre, con giusto un modesto supplemento di quarta.
Cosa ci trovo di buono? Molto (se dicessi tutto sarei a dir poco stupido). Molto, però, lo posso dire con assoluta consapevolezza. Intanto è bellissimo, per esempio, non aver mai (o quasi mai) fretta. Le cose a cui non posso mancare sono davvero poche. Non hai più la scuola ( anzi le scuole), pochissimi gli appuntamenti imperdibili, il tuo lavoro te lo porti sempre con te, dovunque tu debba andare. Quando hai il computer e il tuo smart con te, ti sei portato dietro il 90% di quello che ti serve. Il miracolo lo fa il Web.
Così per i miei articoli, quando sono fuori sede il sabato sera e devo inviarli al giornale: se ho con me il computer e l’albergo dispone del wi fi, (se no, ho sempre con me la chiavetta internet) per questo minimo ingombro la mia seconda casa, la mia macchina, basta ed avanza. Non viaggio mai senza, se non quando devo prendere l’aereo, perché i mezzi pubblici sono così malcreati che non mi aspettano mai, e io raramente spacco il minuto se devo andare alla stazione. Del resto perché dovrei, se i miei orari sono liberi come il vento?
Per il lavoro che a me piace di più, ho tutto il tempo che voglio: scrivere, infatti, è oggi la mia stessa ragion d’essere. Da quando nessuno ha più bisogno della mia parola parlata (a qualcuno pare un po’ pericolosa), mi accontento di scrivere. Non che questa lasci tutti tranquilli, ma ancora la sopportano. A me basta, perché pare che da qualche parte arrivi anche quella. E c’è chi la cerca, e anzi me la chiede. Anche quelle scritte da tempo, si sta vedendo di riproporle in piccole raccolte per temi. perché pare che a qualcuno piacerebbe rileggerli e poterli avere sempre a disposizione.
Come cambia la vita!, mi dico alle volte. Un tempo pensavo che invecchiando avrei avuto più tempo da dedicare alle mie vecchie passioni: i libri d’arte, i film in dvd o in cassetta (perché no in cassetta? Démodé? E con questo? Le immagini e le parole sono ancora quelle e Dreyer, Bergman e Fellini sono ancora dei monumenti a memoria del nostro tempo). Ma i film sono lì, sempre in attesa.
Lo stesso per la musica: non so più quanto tempo è passato dall’ultima opera lirica o dall’ultima sinfonia che ho ascoltato. Qui però dipende da me, da un mio limite personale: non sono capace di scrivere se sento qualcosa che impegna in qualche modo il mio cervello. Non sono capace di fare due cose contemporaneamente con lo stesso organo del mio corpo. Non ho mai imparato a suonare il piano o l’organo, perché la mia sinistra non sa fare qualcosa di diverso da quello che fa la mia destra. Stupido, d’accordo. Ma quando mi sono accorto che avevo questo limite, ho smesso per sempre di provarci.
Durante la mia gioventù m’è capitato di fare qualche bel viaggio nel mondo. Ho scattato migliaia di diapositive. Pensavo: quando sarò vecchio e non potrò fare altro le rivedrò e mi saranno di conforto.
Ma nel frattempo la vecchiaia ha dovuto sempre più indietreggiare in rapporto alla gioventù, guadagnando terreno, forse troppo, rispetto alla morte. Non so se sia sempre un bene. Intanto però io non ho avuto ancora occasione di rivedere le mie foto, di riascoltare i miei dischi, di dedicarmi alla visione attenta e quanto mai godibile dei libri d’arte che ho raccolto visitando mostre e bancarelle di libri vecchi (non molte, in verità).
Ma non ne sento troppo la mancanza, perché ho tutto ciò che mi serve: la parola scritta. Mi sto convincendo che, da quando gli uomini e gli anni mi hanno tolto le occasioni di parlare, in compenso mi si stanno moltiplicando le occasioni per scrivere. Tanto che non mi dispiace nemmeno di non viaggiare più, perché quel poco di mondo che ho visto, mi permette già d’immaginare come possono essere le tante altre parti del mondo che in passato avrei tanto desiderato vedere, ma di fronte alle quali, immagino ora, che molto spesso mi capiterebbe di provare lo stesso sentimento che ho già provato altre volte: bello, ma qualcosa del genere l’ho già visto: i castelli sono tutti castelli, e così i palazzi, i giardini, le chiese, le piazze. Cambia qualcosa solo per le città antiche. Per il resto ci sono le foto e la televisione. E così mi accontento. Finora…
Questa valorizzazione della terza età e magari già della quarta, sono in molti a condividerla. Soprattutto fra le donne. E si capisce. Le più interessate al fenomeno sono proprio loro, che vantano un’attesa di vita di sette-otto anni più lunga dei maschietti.
Più forti e più resistenti degli uomini sia fisicamente sia moralmente (le nostre vecchie hanno avute tutte o quasi tutte una vita ben più dura dei loro uomini, assai più viziati e coccolati di loro, oltre che più prepotenti e maneschi e volgari spiritualmente delle loro donne) esse, oggi, non più minacciate dai rischi e dal logoramento delle numerose gravidanze, dai parti molto spesso a rischio, dagli allattamenti debilitanti, possono godere della quasi sicura sopravvivenza ai loro maschi, e stanno dimostrando di saperne trarre profitto: libere, per la vedovanza e per il pensionamento, dai tanti impegni domestici e del lavoro salariato, amano le palestre, i circoli femminili, il ballo, il cinema, il teatro, i concerti. Molte di esse mostrano ottima forma fisica e non sono poche quelle che ti dicono: non sono mai stata tanto bene in vita mia, come ora che sono in pensione, o vedova, o separata dal marito. Questo vale a tutt’oggi, perché domani chissà…?
Già: chissà che ci riserverà il domani? È questa in realtà la domanda che oggi, assai più di ieri rende difficile relazionarci a un domani da vecchi. Ribadisco l’esordio di questa miniserie d’articoli: oggi, il vero problema non è più la morte, è l’invecchiare. Perché mentre la morte si vede sottrarre sempre più terreno (nel senso che le viene sempre più ritardata l’ora dell’arrivo), la vecchiaia, al contrario come tempo dell’impotenza (parziale, grave, molto grave, totale) rischia d’allungarsi sempre di più. Di chi è la colpa? Di nessuno, naturalmente, perché è del tutto normale che ciò – e chi – ti allunga la vita (medicine e medici) ti aumenti anche il tempo della sofferenza e il rischio dell’impotenza. E finché l’impotenza ti impedisce solo di fare qualcosa che ieri potevi fare, passi! Anzi, spesso queste impotenze si posso anche curare, in tutto o in parte.
Ma quando l’impotenza è di quelle che ti costringono a letto e ti tolgono la capacità di muoverti come vuoi o come dovresti; quando è la perdita della memoria e della stessa coscienza del tuo esserci che ti viene a mancare; quando a visitarti è il dolore non solo invalidante, ma quello lancinante, che ti fa urlare, è allora che davvero tutto ti casca addosso e quello che vorresti veramente, non lo sai neppure tu.
È qui che diventa chiaro che non può esistere solo la strategia del “durare comunque” ma anche quella del “durare come”. Ma poiché ancora una volta il mio spazio è finito, ancora una volta ci dovremo dare appuntamento a un prossimo sabato.