Benedetto XVI: fragilità di un potente


Non escludo che quanto scriverò potrà dispiacere a qualcuno. Non tanto per ciò che scrivo, quanto per il semplice fatto che io lo scrivo. Mi si dirà che non è gentile e nemmeno caritatevole gettare la croce sulle spalle di chi non ha più spalle per portarla, mettere in luce i limiti o i difetti di chi non ha più possibilità di difendersi. Specialmente se quest’uomo è un uomo oltremodo provato da una vita non facile, piena di successi e tuttavia segnata da qualcosa di tragico, dal destino d’essere sempre secondo a qualcun altro, quand’anche non sul piano gerarchico, almeno su quello psicologico-morale. Ombre ingombranti che non hanno permesso alla sua pur vivissima luce, di brillare come quella di un sole, solo perché troppo vicino, ahimè!, a un sole troppo più luminoso lui. È il destino degli eterni secondi, secondi anche quando salgono sul gradino più alto del podio, perché quel gradino, il più alto, risulta ormai stabilmente occupato da una figura che anche quando ne è scesa, vi ha lasciato come una cappa o un alone che finisce per inghiottire chi avrà la mala sorte di dovervi salire dopo di lui.
Dunque parlerò di Joseph Ratzinger al secolo, Benedetto XVI per la Chiesa e, ormai, per la storia. Anzi, per la Grande Storia, nel quale il grande teologo tedesco è ormai entrato di diritto e di fatto.
Il giovanissimo prof. Ratzinger rivelò subito le sue doti: a trent’anni era già professore di teologia fondamentale all’università di Monaco (maggio 1957). Da allora fu un crescendo rossiniano: dicembre 1957 all’Istituto superiore di teologia e filosofia di Frisinga, 1959 Bonn, 1963 Münster, 1966 Tubinga, nel 1969 Ratisbona. Nel 1977 fu scelto da Paolo VI come arcivescovo di Monaco di Baviera e dallo stesso elevato alla dignità cardinalizia. Aveva 50 anni esatti. Una carriera che più brillante e veloce non si può.
Né era finita lì perché, dopo aver preso parte ai due conclavi da cui erano usciti eletti Giovanni Paolo I (agosto 1978) e Giovanni Paolo II (ottobre dello stesso anno), fu scelto dal papa polacco a dirigere la sacra Congregazione per la dottrina della fede (1981) a capo della quale rimase fino al suo successivo scatto di carriera, l’ultimo, quando fu eletto Vescovo di Roma (conclave del 2005).
E sulla cattedra di Pietro è rimasto fino al 28 febbraio di quest’anno, quando le sue dimissioni, annunciate già l’11 di febbraio, divennero effettive.
Un bianco elicottero s’incaricò, di trasportarlo in volo, quasi novello Elia sul carro di fuoco, nel quale non mancò neppure il sigillo del pianto del cielo nel fulmine che proprio in quell’occasione andò a scaricarsi sul culmine della cupola di San Pietro. A molti sembrò un segno premonitore.
Forse qualcuno si chiederà come ho potuto parlare per un uomo che ha alle spalle un tale cursus honorum di complesso dell’eterno secondo. Che poteva fare e ottenere di più di ciò che ha fatto e ottenuto nella vita quel giovane prete tedesco che si muoveva con sempre maggiore sicurezza e autorità sotto le volte della basilica vaticana dove si stava dibattendo e preparando il futuro della Chiesa?
È senza dubbio vero, ben poche carriere sono state più univoche e perentorie di quella del futuro Benedetto XVI. Eppure…
Eppure già in quegli anni egli sembrò muoversi all’ombra e comunque nella scia del più conosciuto e autorevole Hans Kung, vero astro nascente della teologia cattolica progressista in concilio. Curioso destino per chi dovrà privare il grande collega svizzero della qualifica di teologo cattolico e del munus docendi nella Chiesa.
Divenuto prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, egli sarà l’autorevole esecutore della “politica” del giovane papa polacco che per quasi trent’anni bastò da solo a riempire tutta le scena della Santa Sede. La sua figura per quei 21 lunghissimi anni risultò spesso appiattita sulla gigantesca figura del grande protagonista unico della scena ecclesiale (nello scandalo della pedofilia) e solo poche volte egli troverà la forza e il carattere di prenderne le distanze e le scelte non furono sempre delle più felici (non giovò al suo prestigio l’aver preso le distanze dalla grandiosa intuizione wojtyliana della preghiera ecumenica di Assisi).
Poi venne finalmente il suo turno, con qualche prodromo rivelatore. Il famoso discorso in occasione della Via Crucis del 2005 in cui parlò dello sporco, del sudiciume che c’è nella Chiesa; e il suo discorso altrettanto celebre in cui in occasione dei funerali di Wojtyla sembrò disegnare una specie di programma del futuro papato, quasi se ne sentisse o se ne sapesse già investito.
Sembrò un preludio di grande effetto, una specie del celeberrimo attacco della Quinta Sinfonia di Beethoven, cui fece seguito un pontificato che seppe alternare mosse coraggiose (il consenso alla prima dimissione di un vescovo che aveva scelto di darsi alla politica, il vescovo mons. Fernando Lugo che aveva chiesto di potersi dimettere dall’episcopato per poter diventare presidente del Paraguai carica alla quale era stato eletto tre mesi prima), e poi il caso Maciel, e la controversia di Ratisbona (2006) e l’incidente con l’islamismo; la comprensione verso gli esponenti della Comunità San Pio X e la riabilitazione di mons. Williamson (2009) negazionista impenitente dell’olocausto; la simpatia mai negata e anzi spesso esibita per la liturgia tridentina con la riesumazione delle pianete romane, delle mantelline rosse con bordi d’ermellino e del camauro, che se era sembrato ancora accettabile in testa a Giovanni XXIII, sembrò come la riesumazione della cuffia della nonna in testa alle sofisticate signore della moderna società femminile.
Poi finalmente vennero l’11 e il 28 febbraio, e il ritiro a Castelgandolfo e il definitivo seppellimento nel monastero Mater Ecclesiae, dove egli sta vivendo quella che probabilmente sarà la conclusione della sua difficile storia di uomo della seconda sorte o dell’eterno secondo.
Perché ho deciso di dedicare questo articolo a Benedetto XVI, al quale pure riconosco d’aver compiuto con le sue dimissioni un gesto che segnerà la storia del papato per un lungo arco di tempo, forse di secoli.
Perché proprio ieri mi è balenato in testa uno di quei pensieri cui non si può resistere. Sgradevole, ma segnato dalla verità delle cose. Chiedo scusa a chi ne dovesse rimanere amareggiato. Non sarà certo il caso di Benedetto XVI che questo mio povero articolo non lo vedrà mai.
Il pensiero è questo: non è strana e forse anche un po’ (un po’ tanto?) malinconica la storia di questo grande uomo segnato da un destino tanto duro? Una storia tutta compresa tra due “fughe”: la fuga da Tubinga (1968) quando nella celebre città universitaria fecero irruzione il Maggio Parigino, il verbo di Herbert Marcuse e la visione marxista della storia?; e la fuga dal Palazzo apostolico sul Colle Vaticano, dove l’acre odore del fumo di satana, avvertito già da Paolo VI, deve aver talmente appestato l’aria dei sacri Palazzi che neppure Francesco vuol saperne di andare a viverci?
A me pare una gran triste parabola dei tempi moderni, su cui bisognerà pregare e soffrire molto. Dal quale forse è già stato annunciato a noi un salvatore, nella persona di Jorge Mario Bergoglio, Francesco vescovo di Roma, felicemente servente.

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