Le devote bestemmie di Fabrizio De Andrè


Ricordo ancora l’emozione che provai la prima volta che ebbi modo di ascoltarla da un cd comprato per caso in un autogrill dell’autostrada, dove non so.
Per caso. Non seguo la musica cosiddetta leggera, anche se so che fra tanto ciarpame non è raro incontrare musica di cui tutto si può dire meno che sia leggera. Ci sono musiche, canzoni, che hanno contribuito a fare la storia dei nostri giorni. Canzoni come veri manifesti, nel bene e nel male: veri atti di fede, dichiarazioni di guerra, forse meglio dire di impegno; canzoni come parole d’ordine, come inni nazionali (per generazionali), come coccarde al petto, divise militari… Oggi si può dire davvero: “Dimmi cosa canti e ti dirò chi sei, di che decennio sei, cosa pensi, cosa credi, cosa speri, cosa respingi, per cosa vivi, per cosa sei disposto a morire (o quasi…)”. E ci sono pagine di musica che sarebbe davvero un peccato perdere. Beh, io ne ho perse molte.
Dunque quel giorno, sull’autostrada fu per me il giorno de La buona Novella di Fabrizio de André (1970), il disco del cantautore genovese «in cui l’annuncio del Salvatore si trasforma in un atto di fede laico». E non l’ho più lasciata. Quanto tempo fa? Non lo so. Certo qualche vent’anni dopo la sua uscita: forse il momento giusto per me.
Perché da quel giorno quel disco fu proprio “per me”. Cosa ci trovai? Non saprei dire cosa mi colpì, subito, quel giorno. Forse vi lessi il disperato tentativo di salvare qualcosa di quella fede che il cantautore genovese doveva avere nel frattempo perduto? Forse la speranza di poter continuare a coltivare qualcosa che se non poteva più credere, nulla avrebbe potuto impedirgli di amare ancora.
Ma poi ho cominciato a pensare che sì, certo, i protagonisti del mito, lui, de André, li doveva amare ancora, vedendoli molto più vittime che responsabili, e trovando in loro, comunque, dei modelli ancora oggi proponibili alla nuova umanità che vogliamo costruire.
Ho cominciato dunque col pensare che La buona novella era il frutto d’una fede convertita in compassione, in solidarietà per i protagonisti: dalla fede in un Dio troppo lontano e indifferente ai mali e alle condizioni degli umani, alla passione di quegli uomini che le religioni volevano mantenere assoggettati alla superstizione e all’ignoranza. Proprio come loro, i protagonisti del mito: Maria, Giuseppe, Gesù: coinvolti in una storia troppo più grande di loro. Sono certo che un cultore dell’arte e del pensiero di De André potrebbe dire molto di più sull’argomento, ma non potendomi io arrogare meriti e virtù che non ho, penso che quanto già detto possa anche bastare a introdurre il tema.
E il tema è questo: cosa pensava realmente De André di Gesù, di Maria e di Giuseppe? E cosa ha lasciato detto di loro nel breve poema de La Buona Novella? Chi sono essi per lui: tre santi, tre vittime, tre illusi, tre imbroglioni, tre cavie negli ingranaggi d’un gioco troppo grande per loro?
Col passare del tempo, e con il periodico riascolto di quel CD che ascoltavo soprattutto nei miei frequenti e spesso molto lunghi viaggi in macchina, mi parve di poter giungere alla conclusione che no, probabilmente le cose stavano diversamente. Era proprio il punto di vista del giovane sessantottino, d’uno di quei giovani che allora vibravano solo per la prospettiva d’un mondo finalmente liberato da ogni superstizione di fede religiosa e di ogni convenzione borghese e bigotta, i quali, quando non riuscivano a dimenticare il fascino della grandiosità del mito, preferivano scaricare la responsabilità del fallimento e del rifiuto di quella grande speranza, sulla casta sacerdotale, sulla Chiesa.
Ecco la grande accusata: sempre lei la Chiesa, che aveva saputo fare del «più grande rivoluzionario della storia» (sono parole dello stesso de André), «dell’uomo che 1968 anni prima, proprio per contrastare gli abusi del potere e i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali» (F. de André), un fondatore di religione, anzi un figlio di Dio, metafisicamente “altro” da tutti noi.
La prima a farne le spese fu la stessa Maria ed è proprio da lei che partirà questa Buona Novella che formerà l’oggetto della piccola raccolta di canti, traboccanti di poesia e di amarezza. Una vittima lei stessa della superstizione e delle leggi disumane del tempo: all’età di soli tre anni, i genitori la conducono al tempio per ricevervi un più profondo e integrale avviamento alla fede. Esiste tuttora una festa liturgica che ricorda questo particolare evento della vita della madre di Gesù (21 novembre), di cui i vangeli non parlano affatto, presente però nei vangeli apocrifi, dai quali Fabrizio de André decide di prendere lo spunto per la sua “narrazione dei fatti” di questo poemetto.
Bisognerà tenere ben presente questa scelta del grande chansonnieur genovese, il quale si sente libero di attingere anche altrove le sue informazioni, rifuggendo dalle fonti ufficiali. In questo non commette un abuso in assoluto: ho appena detto che la stessa Chiesa cattolica dedica una memoria liturgica a questa tradizione.
Ma lo spirito delle due memorie è totalmente diverso: per la Chiesa questo evento della vita di Maria viene letto, qualora sia avvenuto realmente (e la Chiesa questo non lo afferma, parlando solo di “antica e veneranda tradizione”), come un segno di predestinazione della bambina: la liturgia lo legge cioè sotto una luce del tutto positiva e profetica, mentre de André vi vede solo una delle tante forme di crudeltà di cui la Chiesa si è resa responsabile nella storia. Proporrò qui solo i passaggi più eloquenti:
«forse fu per bisogno o peggio per buon esempio / presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio». O bisogno o bigotteria, dice de André: male il primo, peggio il secondo: difficile scegliere il male minore.
Bisogno: portiamola al tempio, si sarebbero detti Gioacchino e Anna, i genitori (i due nomi sono un altro contributo dei vangeli apocrifi): avremo una bocca in meno da sfamare: una costante nella storia del cristianesimo; solo Dio sa quanti bambini e bambine sono stati avviati ai seminari, ai conventi ai monasteri per garantir loro da mangiare, alleggerendo così la famiglia. Tristissime storie di povertà, spesso di vera miseria.
Buon esempio: per apparire devoti, per fare una cosa grata ai sacerdoti, per apparire essi stessi, i genitori, come genitori modello. Una forma di crudele bigotteria.
«Non fu più il seno di Anna fra le mura discrete / a consolare il pianto a calmarti la sete». Dunque la bambina viene precocemente svezzata (si noti che all’epoca dei fatti l’allattamento al seno poteva ben arrivare fino ai tre quattro anni). La bambina crescerà lontana dalla mamma, privata della sua tenerezza e delle sue cure premurose.
«Dicono fosse un angelo a raccontarti le ore / a misurarti il tempo fra cibo e Signore». Vi pare questa una vita da bambina di tre anni? Si può immaginare qualcosa di più triste d’un’infanzia così?
«…ma non per te bambina che nel tempio resti china». Sono le ultime parole del coro (vedi nel box allegato). Povera piccina, che mentre le tue coetanee stano fuori a giocare, sull’aia o in strada o nel cortiletto di casa, tu te ne devi stare nel tempio a pregare, a studiare a memoria le sacre scritture, a imparare a mortificare le tue voglie e i tuoi istinti.
Ma gli anni passano anche per i bambini e per le bambine dedicate al servizio del Signore.
Così per Maria, ormai adolescente si apre un altro periodo di vita. La bambina ha ora 12 anni si precisa, forse per far coincidere l’età in cui le femmine venivano congedate dal Tempio e i maschi, invece, venivano presentati al Tempio con un rito d’ingresso nell’età in cui il giovane diventava religiosamente adulto: rito cui anche Gesù si sottomise, rimanendovi per tre giorni a discutere con i sapienti del tempio, mentre i genitori lo cercavano, per la città, non riuscendo a ritrovarlo). A 12 anni Maria dovette lasciare il Tempio perché la mestruazione, pur non essendo un peccato, rendeva ritualmente impura la donna, cui nessuno, in quei giorni, poteva avvicinarsi se non voleva lui stesso diventare impuro ed essere a sua volta evitato da tutti. Assai sgradevoli, duri polemici, accusatori suona i quattro versi dedicati a questo momento:
«E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio / avevi dodici anni e nessuna colpa addosso / ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio / la tua verginità che si tingeva di rosso». De André da qui prova di una durezza crudele: quella che per ogni bambina è l’ingresso nell’estate della vita (a maggio si cominciano a vedere e a mangiare i primi frutti della terrà del nuovo anno), viene giudicata una colpa dai vecchi sacerdoti del tempio, uomini della legge, uomini senza cuore.
Qui avrebbe fine la prima parte di questa opera veramente fondamentale nella poetica del grande cantautore genovese. Una fine che nell’opera coinciderebbe subito con l’ingresso nell’età adulta di Maria. A questo punto andrebbe in scena il dramma tragico e farsesco del “come ti trovo un marito a una vergine educata nel Tempio da vecchi e barbosi sacerdoti”. Ma di questo la prossima puntata, fra quindici giorni.

LA BUONA NOVELLA
Parole di Fabrizio de André
L’infanzia Di Maria
Coro:
Laudate dominum
Laudate dominum
Laudate dominum

Voce:
Forse fu all’ora terza forse alla nona
cucito qualche giglio sul vestitino alla buona
forse fu per bisogno o peggio per buon esempio
presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio
presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio.

Non fu più il seno di Anna fra le mura discrete
a consolare il pianto a calmarti la sete
dicono fosse un angelo a raccontarti le ore
a misurarti il tempo fra cibo e Signore
a misurarti il tempo fra cibo e Signore.

Coro:
Scioglie la neve al sole ritorna l’acqua al mare
il vento e la stagione ritornano a giocare
ma non per te bambina che nel tempio resti china
ma non per te bambina che nel tempio resti china.

Voce:
E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio
avevi dodici anni e nessuna colpa addosso
ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio
la tua verginità che si tingeva di rosso
la tua verginità che si tingeva di rosso

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