Il Concilio nel ricordo di uno che c’era


IO C’ERO, sì, io c’ero a Roma, in San Pietro, quell’11 ottobre del 1962, alla solennissima cerimonia d’apertura del Concilio Vaticano II, all’appuntamento con la Grande Storia. Ero lì, con i miei 23 anni cui mancavano solo 28 giorni per essere compiuti. Io, capite?, ero lì!
Scusate, ma qui un avviso ai Lettori s’impone. Io non scriverò queste righe con la testa e con il cuore di oggi, ormai di cinquant’anni più vecchi di quello che erano allora (testa e cuore solo molto più vecchi, ma non molto più saggi, più sapienti, più esperti, più puri; forse solo più stanchi, un po’ delusi, un po’ più amari); cercherò invece di scrivere con il cuore e la mente di allora, di quel magnifico mattino di ottobre: una mattinata romana piena di luce e io lì, in prima o seconda fila, a destra dell’altare della confessione guardando l’altare, a non più 4-5 metri dal grandioso baldacchino del Bernini, a 8-10 metri dal papa, il Papa Buono, Giovanni XXIII, mite e raggiante, umile e felice, che non so che pensasse lui in quel momento, ma forse pensava quello che penserei oggi io, se fossi stato al suo posto: “e pensare che tutto ’sto casino l’ho combinato proprio io”, chiamando qui, attorno a me, da ogni parte del mondo, questi 2300 vecchi e meno vecchi, coi segretari e tutto il resto: e gli esperti, e gli uditori, e i gli invitati speciali, e le delegazioni ufficiali di tutti gli Stati accreditati presso la Santa Sede e le centinaia e centinaia di giornalisti da ogni parte del mondo, accreditati anche loro presso la sala stampa del Vaticano e le decine e le centinaia di migliaia di gente in piazza, e sulle vie tutt’attorno a san Pietro, tutte lì per la stessa ragione, per vedere 2300 vescovi tutti in una volta, che un buontempone disse “pensa una bomba, una sola, oggi su sanpietro (mamma mia che cicciata!) e addio la Chiesa che non ce resta più manco la puzza!”.
E invece, macché bomba, macché cicciata! Fu uno spettacolo mai visto dacché la Chiesa è Chiesa, e quando il coro della Cappella Sistina, condotto da Domenico Bartolucci, intonò il Veni creator Spiritus, tutti ci aspettavamo di vedere i cieli aprirsi e la mistica Colomba staccarsi dalla Gloria del Bernini e trasformarsi in altrettante fiammelle quante erano quelle teste mitrate e posarsi su una per una sulla testa di ognuno di loro.
E io ricordo la mia commozione e la mia gratitudine per poter essere lì, presente, proprio al centro della scena, sebbene del tutto marginale all’azione. L’importante era solo che IO C’ERO!
E la sera c’era la luna e Giovanni XXIII ci raccomandò di guardarla, e di dare una carezza ai nostri figli e di dir loro che era la carezza del papa! E mi commossi anch’io che figli non ne avevo, che non ne avrei mai avuti, perché studiavo da prete, anzi, per molti, dato che ero a Roma a studiare, studiavo addirittura da vescovo, e magari chissà: non si pongono mai limiti alla Provvidenza…
Poi venne tutto il resto: gli ultimi due anni, le due ultime sessioni, “da dentro”, da dentro sanpietro cioè, che non ero un vescovo e non potevo votare, ma ero dentro con loro, e distribuivo loro i fogli da leggere e quelli per votare, opera di segreteria cioè non di concetto, ma i teologi li potevo frequentare e fare amicizia con loro, con diversi di loro, Jean Guitton fra tutti.
Era tutto un confronto con gli anni dell’università, al Laterano, dove Piolanti, il rettore magnifico e mio professore, inveiva contro gli eretici calati a Roma a difendere le loro eresie, ma Roma li avrebbe sconfessati e loro se ne sarebbero ripartiti scornati, perché il Concilio era diretto dallo Spirito Santo e mica dai Rahner e dai Congar, dai De Lubac e dai Martimort!
E invece no! Invece alla fine vinsero proprio loro, i barbari, e l’immane lavoro delle commissioni preparatorie guidate dai teologi nostrani, 73 schemi di lavoro, dovette quasi tutto essere rifatto daccapo, e ridotto a solo una dozzina di schemi cui si aggiunse quella Gaudium et spes che del Concilio sarebbe rimasta una dei pilastri portanti.
E dall’interno io assistevo alla partita, come un raccattapalle che nel gioco conta meno di nulla, ma che, vedendo giocare, in cuor suo incomincia a tifare per questo per quello, e intanto da bordo campo può vedere tutto molto meglio di quelli che sono sulle gradinate.
Fu così che i miei pensieri e le mie preferenze andarono cambiando, e da quel seminarista romano che ero, pedante e conservatore quali erano quasi tutti i seminaristi del Seminario Romano, – il Seminario del papa! – come ci veniva ricordato di continuo, mi avviavo a cambiare casacca e a diventare un esponente della Chiesa conciliare, più coraggiosa e più aperta al futuro che attaccata al passato, finché anch’io feci la mia scelta di campo che non è più cambiata, che dura tuttora e che non cambierò certo negli ultimi pochi anni che mi restano da vivere.
E andò avanti così finché non si chiuse il Concilio – era l’8 dicembre del 1965 – con la Chiesa che rimodellava il suo volto, con l’assoluta volontà di cambiare, di diventare altra cosa da quella che era sempre stata da Trento in poi: e noi eravamo tutti sicuri che così sarebbe stato senz’altro, perché sennò che motivo c’era di fare tanto chiasso e prendersi tanto scomodo per niente?
Per di più erano tutti persuasi che il vero concilio cominciava proprio allora, quando i vescovi avevano ormai riguadagnato stabilmente le loro sedi e i viavai tra Roma e le loro diocesi era finito. Perché a ben pensarci era solo allora che il Concilio incominciava la sua vera vita e la sua stessa ragione di essere: cambiare, convertire la Chiesa. E come la vita vera incomincia solo dopo il parto, così la vita di un Concilio.
Ma altresì (e a questo nessuno aveva veramente pensato), nello stesso momento cominciò il vero anticoncilio, cioè la resistenza al concilio: per mettere almeno la sordina al concilio, perché non “facesse altri danni” (corse voce che “il Grande Vecchio” dell’opposizione romana, il card. Ottaviani, l’ultimo erede dei Grandi Inquisitori, si fosse lasciato uscire questa parola: “ci vorranno 50 anni per riparare i danni che questo papa ha fatto alla Chiesa”). Visti i risultati, vien fatto di pensare che i 50 anni sono giusto passati: ma i guai restano. Non han saputo loro riparare quei guasti, o ne han fatti loro tanti e di ben maggiori?
Di questa resistenza, sorda e miope, Roma (la Curia Romana) fu certamente il centro. I vecchi poteri vendono sempre cara la loro pelle e il potere si riproduce per partenogenesi: il potere nasce dallo stesso potere che vuole perpetuarsi.
E sulla riproduzione animale quella del potere ha un enorme vantaggio: quella dà la vita, ma non può scegliersi i figli; il potere sì, può scegliersi da chi farsi gestire. Sa dove sceglierli, e quando li ha scelti sa come insegnare loro l’arte del potere. E solo quando li ha messi alla prova ed essi avranno superato l’esame, li “investe” del potere promesso. Ciò vale per ogni potere. Il processo avviene per omologazione e cooptazione. Il potere non ama correre rischi.
Così la Chiesa si prende cinque, sei, sette anni per scegliersi i suoi preti. Sicuramente non sono troppi. Altri anni (assai più di sette) la Chiesa si prende per scegliere i suoi vescovi (anche qui, niente di più saggio): vuole studiarli e conoscere bene prima. Ma quando sarà il momento neppure questo basterà. Del candidato si vuole (o si vorrebbe) sapere tutto: chi è, che ha fatto, i suoi studi, i suoi esiti pastorali, che giudizio dare dell’uomo e del prete, sulle sue relazioni con l’altro sesso e ancora di più, oggi, con quelli del suo stesso sesso; quale la sua docilità ai superiori, la sua libertà di giudizio, di parola…ecc.
Tante precauzioni, se valgono a limitare i danni, non bastano però a evitare ogni sorpresa. Se questo vale per ogni vescovo, quanto maggiori saranno le cautele per l’elezione del vescovo di Roma? Grazie a Dio, però, ogni tanto qualche cosa “va storto”, e Dio riesce a riprendersi l’iniziativa. Come fu con Giovanni XXIII: 78 anni quando divenne papa. Vecchio dunque. Un papa di transizione, si disse. Ma bisognava evitare un altro Pio XII: 19 anni di pontificato. E dove trovarlo poi un altro Pio XII? Uno ci sarebbe stato, mons. Giovanni Battista Montini, ma lo stesso Pio XII lo aveva messo fuori giuoco: creatolo vescovo di Milano, l’aveva lasciato 4 anni a bagnomaria senza più fare un solo concistorio. Niente nuovi cardinali significò niente Montini papa.
Fu giocoforza adattarsi a un papa di transizione. E papa di transizione fu. Ma che papa! E che transizione! Le cause seconde (le decisioni degli uomini) a servizio dei piani di Dio. Con lui il popolo di Dio si avviò sulla strada dell’esodo dalla servitù tridentina verso l’epifania del Vaticano II: la Pentecoste poteva aver luogo. Dall’epoca della Santa Inquisizione e del Sillabo all’epoca del libero confronto sulle idee; dalla Bibbia sottochiave, alla Bibbia per tutti; dal «non è necessario che l’uomo capisca, basta che le nostre preghiere le capisca Dio» (san Roberto Bellarmino); alla liturgia nelle lingue del popolo; dall’epoca del papa prigioniero di sé stesso in Vaticano ai papi globetrotter per annunciare il Vangelo a tutto il mondo… Un’altra Chiesa per un’altra storia, per un’altra cristianità, per un’altra umanità. Aver vissuto quei momenti anche solo da spettatore attento e consapevole fu un grande dono di Dio.
E oggi? Oggi molta cenere s’è posata sul fuoco di quella pentecoste: le chiese vuote, le parrocchie senza parroco (hai voglia a dire che è un bene che ciò sia: come se si dicesse che è bene che 100 bambini restino senza famiglia: vuoi mettere i vantaggi di una vita ricca di stimoli e di relazioni in una comunità allargata? Ahi, i luoghi comuni della disperazione!), le famiglie cristiane distrutte, i matrimoni divenuti un optional per patiti dell’abito bianco e i battesimi sempre più rari e delle cresime meglio non parlare! E lo smarrimento di chi, non avendo niente da dire, continua a citare i documenti conciliari senza averne afferrata la profezia profonda!
Il cardinal Martini che sognava un Vaticano III per affrontare proprio questi problemi è morto senza poter cantare il suo «Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace ». Chissà se la vedranno gli occhi di chi oggi si affaccia alla finestra sul mondo di domani?