Credere in chi, in che e per cosa


Approfittando della ricorrenza dei 50 anni dal Concilio Vaticano II, il papa Benedetto XVI ha voluto riproporre un Anno della Fede per favorire la riscoperta e il recupero di quel clima e di quel fervore che accompagnò quegli anni benedetti.
Ma il papa sa bene che non è solo l’inesorabile scorrere del tempo che le gioca a sfavore: molto più fanno male alla fede le colpe e le responsabilità di quelli che dovrebbero saper orientare nella giusta direzione gli eventi della storia della Chiesa. Egli sa anche che proprio per questo l’impresa appare oggi particolarmente ardua come non mai. La Chiesa, che non ha mai avuto paura della persecuzione e anzi ha saputo trarre spesso nuova energia dal sangue dei martiri, sa anche che ad allontanare gli uomini da lei e dal suo messaggio sono le piaghe che devastano il suo corpo. Ma anche a lei capita, come a tanti malati, di non amare i medici che le dicono in faccia i mali di cui soffre. Parliamo spesso di un eclissi di Dio o di una perdita del senso di Dio nel nostro mondo. Ma questo fenomeno non è universale: esso sembra limitato al cristianesimo, a quello europeo in particolare. Musulmani e buddisti ne sembrano assai meno interessati o addirittura immuni. Perché?
Un bel contributo a indirizzare la nostra ricerca nella giusta direzione ci viene offerto, a mio giudizio, da Vito Mancuso. Accettando di entrare nell’occhio del ciclone, egli sa cogliere, a mio giudizio, la ragione della dichiarata antipatia della cultura europea contemporanea nei confronti di quella fede religiosa dalla quale, pure, tutta la sua civiltà, in misura certo non seconda a quella dell’antica Grecia, è andata plasmandosi. Come spiegare altrimenti il rifiuto di menzionare il cristianesimo fra le radici culturali e antropologiche dell’Europa moderna?
Mancuso così si esprime nel suo recentissimo Obbedienza e libertà: «Sono convinto che, anche quando non ne è consapevole, è con Nietzsche e con la sua “gaia scienza” che il cristianesimo oggi sta combattendo una guerra di sopravvivenza altrettanto radicale di quella che molti secoli fa l’oppose al paganesimo. Anche perché si tratta, a mio avviso, della medesima guerra, come mostra l’identità di vedute tra Nietzsche e il filosofo pagano del II secolo d.C. Celso, accanito avversario del cristianesimo. Come infatti per Nietzsche il cristianesimo è “una forma di mortale inimicizia contro la realtà”, per Celso «i cristiani non amano la vita».
Considerato definitivamente sconfitto dal cristianesimo, il paganesimo ha saputo rivivere, secondo Mancuso, in età moderna, a partire dal sec. XVI; ma è solo con Nietzsche che esso è stato in condizione di poter aspirare a «conquistare il cuore dell’Europa» moderna. «Il postmoderno, a mio avviso, è un rinnovato paganesimo. E per questo è il tempo di Nietzsche».
Mancuso però sa bene che è in atto un altro fenomeno, in apparente contraddizione col primo: che proprio mentre si mette in discussione lo stesso concetto di Dio, quest’ultimo mostra una sua insospettata vitalità, tanto che «da più parti si connota il presente come il ritorno del sacro». E non manca chi se ne dice molto preoccupato.
Una rivincita del cristianesimo allora? Proprio no, precisa Mancuso: «Se la postmodernità rappresenta il superamento dell’ateismo» (di quell’ateismo militante e oltracotante [G. Carducci] che è proprio dei Dawkins, Flores d’Arcais, Hitchens, Hawking, Odifreddi…) «non per questo il suo crescente desiderio di spiritualità intende tradursi nelle tradizionali forme cristiane». Paradossale? Neppure troppo, fa presente Mancuso: «perché proprio in quanto offerta spirituale il cristianesimo ha perso fascino, annoia (sottolineatura mia), nel migliore dei casi consola». Ancora una volta Nietzsche: «Gli uomini realmente attivi oggi sono interiormente senza cristianesimo». E se questo era vero già al tempo di Nietzsche, «quanto più (lo è) ai nostri giorni»! A conclusione del discorso (e di questa lunga citazione di Mancuso) vale la pena di riprendere ancora le parole di filosofo tedesco: «È la nostra stessa pietà più severa ed esigente a proibirci di essere ancora cristiani». Parole pesanti come una pietra tombale…!
Ebbene, non mi voglio sottrarre alla sfida. E il coraggio di reagire lo cercherò là dove solo lo si può trovare: sotto la croce, anzi solo qualche decina di metri più lontano: dentro al sepolcro vuoto, dove Gesù era rimasto dal pomeriggio del venerdì alle primissime ore del primo giorno dopo il sabato (i tre giorni della tradizione). Sì, perché solo lì, sotto la croce e sulla bocca spalancata del sepolcro noi possiamo trovare la chiave per vincere la sfida che Nietzsche e tutti i suoi epigoni hanno lanciato e continuano a lanciarci, fino ai nostri giorni.
Perché quel venerdì santo sotto la croce, come quel mattino dell’una sabbatorum davanti al sepolcro vuoto, a nessuno venne in mente di tirar di fioretto in teologia. Nessuno si chiese come era potuto morire un Figlio di Dio, Dio egli stesso; o come aveva potuto risorgere un uomo già morto e sepolto, per apparire ora, vivo, a prometterci vita? Tutta la loro reazione fu di tornare a nascondersi, per non dare nell’occhio, per non essere presi anche loro. Il coraggio di uscire allo scoperto a predicare la resurrezione del crocifisso lo troveranno solo 50 giorni dopo, quando, investiti dal fuoco e dal vento dello Spirito Santo, usciranno in piazza ad annunciare agli uomini la risurrezione d’un crocifisso morto tre giorni prima.
Quelle parole non contenevano nulla del rhetorikós (dell’arte del parlare e del convincere), ma solo un kerigma, un annuncio, una notizia: quel Gesù che voi avete ucciso, Dio l’ha risuscitato e noi ne siamo i testimoni (At 2,32; 3,15; 5, 32). Basta. Era detto tutto. La teologia con le sue spiegazioni venne solo più tardi, a complicare tutto, a dare origini a dispute, a scuole, a teorie, a eresie, a scomuniche, a roghi. Ancora Nietzsche, a senso: Venne Gesù e fu la buona novella; venne Paolo, e fu una pessima notizia. Tranquilli: non la condivido, non la faccio mia. Ma ne raccolgo la sfida: se vogliamo parlare di nuova evangelizzazione, sappiamo quello che ci aspetta: basta teologia; avanti tutta con il kerigma (l’annuncio della buona novella); basta dogmi, e avanti tutta con la spiritualità; basta diritto canonico, e avanti tutta con la profezia. Ancora Nietzsche, ancora a memoria: come mai voi, portatori della lieta novella, avete una faccia tanto poco da salvati?
Possiamo giurarci: Cristo tornerà a piacere quando i cristiani lo renderanno meno tetro. Quando il Vate dell’Italia repubblicana non potrà più scrivere gli odiosi versi sul «galileo / di rosse chiome (che) il Campidoglio ascese / gittolle in braccio una sua croce, e disse / – portala e servi –» (Sulle fonti del Clitunno); quando Cristo tornerà a essere davvero «il più bello dei figli dell’uomo» (Ernst Renan; Sal 44,3). E la Chiesa, finalmente riconciliata con l’uomo e la sua storia, potrà tornare a predicargli un Dio d’amore, di pace e di universale perdono.