Andiamo anche noi a Gerusalemme, a morire con lui


Caro lettore, quando leggerai queste righe, pensami pellegrino, forse come te, a Gerusalemme (solo in spirito però), sulla strada che da Betania sale verso Gerusalemme. Avrò già scollinato verso la Città santa che allora si stenderà davanti a me in tutto il suo fascino e il suo mistero, tutto racchiuso in quella cupola d’oro della Moschea sulla Roccia, simbolo grandioso e tragico a parlarci della precarietà di cui sono malate tutte le cose eterne costruite dall’uomo.
Al vederla, proprio su quella che era stata la spianata del Tempio di Salomone (sec. IX a.C.), cuore e anima della religione ebraica, segno eterno dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, vien quasi da pensare a un passaggio di consegne da Mosè a Maometto, da YHWH (Yahweh) ad ALLAH. Gli occhi fissi su quella cupola, i miei piedi cammineranno lentamente sulla strada che scende verso il torrente Cedron per poi risalire verso la grande spianata, là dove Gesù era solito incontrare la gente semplice del popolo, scontrarsi con farisei sacerdoti scribi e sadducei, guarire i malati, confondere i dottori del Tempio, predicare il Regno ormai vicino. Nella mia mano sarà una grande frasca d’ulivo, e con la mia gente canterò l’«Osanna al Figlio di David» e col pensiero riandrò al “Gloria laus” e al “Pueri Hebraeorum”, come li cantavo, da giovane a Roma, commovendomi ogni volta, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma.
Mi vedrò scendere verso il Cedron e di là risalire verso la città alta, quella dove avevano sede i palazzi del potere romano cercando di seguirlo con l’occhio e col cuore, mentre Lui, già prigioniero, lo saliva fra strattoni e spinte, percosse e sberleffi.
Tutto questo sarà, anche se io non sarò a Gerusalemme. Sarò a Casalina, la mia piccola parrocchia che ha solo un vicolo, ma uno ne ha, che potrà, sia pure alla lontana, richiamarmi quei luoghi. Un vicoletto con degli archi di sostegno fra le pareti di due case e una breccia nelle mura sul fondo. Troppo poco per fare Gerusalemme. Però, almeno le mura di un castello ci sono: piccolo quanto volete, però un castello. Per almeno due minuti (non di più), potrò sentirmi su un brevissimo tratto della Via dolorosa, impegnato in una qualche stazione della Via Crucis.
Canteremo anche noi l’Osanna al Figlio di David, e sarà il miracolo. Perché se è vero che io, noi, non saremo Gerusalemme, il miracolo ci sarà lo stesso. Perché questo è il potere della liturgia: è l’evento che viene a noi, che ci raggiunge. E ci salva. Poi, sai che ti dico? Non contano le pietre che calpesti né quelle che ti circondano: conta quello che hai dentro. Conta il tuo cuore. Quando canteremo quei canti avremo già ascoltato le lettura del brano che ci racconta quello che accadde in quel giorno, quando ebbe luogo quel piccolo memorabile fatto che meritò d’entrare nella storia. E già l’averlo ascoltato ci ha messi in rapporto con esso, ed esso ha incominciato a produrre i suoi effetti, se solo avevamo fede quanto un granello di senape. E senza neppure pensarci, ci saremo quasi messi in concorrenza con quelli che quel giorno eran lì, nel tentativo di fare altrettanto bene la nostra parte, magari anche meglio di loro. E sarà per virtù di quei canti e di quei racconti, di quei gesti e di quei passi sul catrame di Casalina che quell’evento rivivrà per noi, mentre percorreremo quei duecento metri scarsi prima d’entrare in chiesa. Breve fu l’illusione per i discepoli. Se speravano qualcosa per loro sarebbero rimasti delusi. Da questa tentazione noi siamo immuni. Anche questo è prodigio dell’evento di culto. Ti dà solo ciò che chiedi. E te lo dà sempre.
Ora sei arrivato alla chiesa e incomincia la messa. E il tono cambia. Da subito.
Intanto ti accorgi che sei vestito di rosso. Perché di rosso? Non era meglio il verde, il colore delle foglie d’olivo; o almeno l’argento, come il “verso” della foglia d’olivo?
Invece no, il rosso! E già! Certo! il colore del sangue! Del sangue che Lui ha versato per me. Il rosso del collo e dello sterno del pettirosso, questo minuscolo simbolo della passione, da sempre caro alla simbologia cristiana.
È il rosso del sangue del Cristo flagellato di cui ci parlerà Isaia nel primo canto del Servo di Yahweh, che la prima lettura ci propone: «Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6).
Non avremo nemmeno il tempo di riprenderci, che subito un altro testo, di Paolo questa volta, ai Filippesi ci sorprende come uno schiocco di frustra: è tanto intenso il testo che val meglio proporlo briciola per briciola:
«Cristo Gesù,
pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò sé stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana
umiliò sé stesso, facendosi
obbediente fino alla morte,
e alla morte di croce
» (Fil 2,8).
Rileggetela, per favore, e fermatevi a riflettere riga per riga, parola per parola.
Non ci trovate tutto? 1) era di natura divina: si è fatto simile agli uomini.
2) non fu geloso del suo essere Dio: volle farsi uomo. Ricordate?: «’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura»( Dante, Paradiso 33, 5-6).
3) Era Dio, volle assumere forma di servo, divenendo simile agli uomini.
E pensare che Adamo ed Eva peccarono perché era stato loro promesso che sarebbero diventati come Dio! Ecco i tragici frutti dell’orgoglio, e i miracolosi effetti dell’umiltà.
4) Apparso in forma umana, umiliò sé stesso! Vi rendete conto?! Umiliò sé stesso: “ma dove credeva di venire?” direbbero i nostri tromboni. Non sapeva che qui, se sei un tacchino devi voler sembrare un pavone; se sei un gattino, devi farti credere una tigre; se sei un cretino, devi cercar di passare per un Einstein?
5) Facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce? Gente, qui siamo al delirio puro! Ma non aveva mai letto, questo povero Paolo, il grande Nietzsche? Non sapeva Paolo che 1900 anni dopo Gesù e dopo Paolo stesso, il grande profeta della morte di Dio, avrebbe detto che quel Gesù era deleterio per le sorti del mondo, perché praticando e insegnando la kénosis, lo svuotamento di sé stesso, aveva recato un danno immenso allo sviluppo della civiltà, che in realtà non attende altro che l’epifania del Superuomo. E c’è ancora chi ha il coraggio di proporci Cristo e Paolo a esempio e a maestri?!
Ebbene io voglio fare qui la mia professione di fede:
Non mi togliete il Padre nel quale credo, non mi togliete il Figlio, nel quale spero, non mi togliete lo Spirito di Dio nel quale confido di poter anch’io un giorno trasfigurarmi in Lui.
E perché io credo in Lui? Perché io non posso credere nell’uomo (figurarsi nel Superuomo!). E se credo ancora negli uomini è solo in quelli che di Lui e da Lui hanno preso! Anche fra chi non crede in Dio, ci sono molti che da Dio hanno preso, e molto: da Gesù Cristo, intendo.
L’avete sentita l’ultima? Gli impresari guadagnano meno dei loro dipendenti!
“I padroni” guadagnano meno dei loro operai. I professionisti meno dei salariati e i gioiellieri meno di un professore di scuola media statale. E Bertinotti e Violante non rinunciano ai loro benefit. Oh non eran costoro uomini di sinistra? Se questo è l’uomo!
Che se mi dite: quella gente è tutta battezzata e cattolica: io vi risponderò: Battezzata sì, ma nel battesimo di Paperon de’ Paperoni, che faceva il bagno nell’oro. No, Cristo non abita lì.

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