Ahi Costantin, di quanto mal fu matre!


La spy story in Vaticano continua ancora. D’accordo sto esagerando. Non sarà, non è una spy story. Almeno lo speriamo. In molti.
Ma disagio ce n’è tanto in giro, anche perché di certe strane figure che si fanno difensori d’ufficio del piccolo Stato d’oltre Tevere, si farebbe volentieri a meno.
C’è qualcosa che stride in questo nome: cattolico. Qualcosa che imbarazza. Quando senti un vicepresidente della Camera dei deputati che si dice cattolico praticante (e aggiungerei militante) sostenere che 19 deputati già condannati su 630, non sono poi uno sproposito, a me vien fatto di chiedermi in che mondo siamo.
E quando lo senti dire che non c’è alcuna differenza di merito fra un capo di Stato tedesco che si dimette per colpe che più che reati sono imprudenze e leggerezze, e tanti politici nostrani (capi di governo, ministri, sottosegretari, dirigenti di partito, amministratori vari) che, pur già condannati da almeno un tribunale, di lasciare libero il proprio posto alle Camere non ci pensano neppure: beh allora davvero ti domandi se per un mondo così ci può essere ancora una speranza.
Già così è molto triste. Ma poi le cose peggiorano quando ti spiegano come ciò sia possibile, perché la risposta normalmente è questa: perché il primo è stato educato al rigore morale dalla sua fede luterana (che insegna che i peccati/reati è giusto che chi li commetti li paghi anche), mentre i nostri politici, “diseducati” dalla ben più lassa morale cattolica, si sono abituati a pensare che bastano e avanzano le tre avemarie prescritte dal confessore per essere in pace con Dio, con la res publica e con noi stessi. Quanto alla poltrona non la lasceranno mai perché il voto popolare gliel’ha data e state tranquilli, nessuno gliela toglierà. Del resto se Dio li ha già perdonati…
Lo confesso: questo discorso, questa accusa ogni volta che li sento, mi fanno sentir male nel mio essere cattolico. Ma finora trovavo il modo di consolarmi dicendomi: in fondo siamo uomini anche noi, fragili e deboli come tutti gli altri, ma c’è pure un posto dove cristiani di ben altra levatura morale vivono e parlano e operano. A me basterà guardare verso quel punto e la speranza tornerà a risplendere per me. Forse quale fosse quel luogo l’avrete già immaginato da soli.
Ed ora ecco che da qualche tempo anche quel mito vacilla, che neppure a quell’isola felice sarà mai possibile approdare.
Così per farmi coraggio mi sono detto: in fondo è stato sempre così. O anche peggio. E sono andato a rileggermi alcuni versi di Dante, «il ghibellin fuggiasco» di Ugo Foscolo, che poi ghibellino non era, anzi era guelfo di parte bianca, quindi fra i meglio disposti verso il papa romano, Bonifacio VIII. Un amore deluso che valse a trasformare quell’amore in odio profondo, fino a indurre il poeta a condannarlo e a precipitarlo all’inferno già prima della sua morte. Parole d’una durezza estrema che solo da un odio vecchio di generazioni o da un grande amore tradito potevano scaturire.
Celeberrime le parole della terribile invettiva contro l’imperatore romano Costantino al quale veniva fatto risalire l’atto di donazione col quale la città di Roma veniva donata al papa come sua proprietà e suo regno.
«Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre» (Inferno XIX,115-117). Povero fino a quel momento, da allora il papa, per la storia Silvestro I che secondo la leggenda aveva guarito il potentissimo imperatore dalla lebbra, si ritrovò ricco per la prima volta. E da allora il demone della ricchezza s’impadronì del papato: «Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento:/ e che altro è da voi a l’idolatre,/ se non ch’elli uno, e voi n’orate cento?» (ivi, 112-114).
E tanta fu la brama di ricchezza, che gli uomini di chiesa distolsero la faccia da Dio per guardare solo la terra e i suoi beni. Ora per il contrappasso essi tra gli avari giacciono stesi a terra, bocconi: la bocca immersa nella polvere o nel fango, e il dorso rivolto al cielo: quelle stesse spalle che essi avevano voltato a Dio, tutti presi dalla loro febbre di ricchezza (Adriano V, Purgatorio, XIX, 118-126).
Ma il grido e la protesta più accorata Dante la mette in bocca allo stesso Pietro: e son parole che non si dimenticano facilmente. Mette subito le mani avanti, quasi a dire “tieniti forte”: «…se io mi trascoloro/ non ti maravigliar; ché, dicend’io,/ vedrai trascolorar tutti costoro».
È come un altissimo, accorato grido di dolore quello che farà scolorire tutti Beati all’intorno: «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio/ il luogo mio, il luogo mio che vaca,/ nella presenza del Figliol di Dio/ fatt’ha del cimitero mio cloaca/ del sangue e della puzza…»(Paradiso 27, 19-26). Dante non avrebbe potuto trovare parole più dure e brutali per esprimere il suo sdegno e il suo amore tradito.
Sia ben chiaro: non mi ritrovo in quelle parole che non posso far mie senza riserve. Voglio solo mettere bene in chiaro che quel pericolo di trasmettere ancora oggi tanta avversione contro il luogo che fu di Pietro, la Santa Sede incombe ancora oggi nel mondo in cui viviamo. «il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio!»,
Perché è di ogni giorno la notizia o l’eco di un’accusa, d’una denuncia di manovre non chiare, di traffici non limpidi, di progetti o di piani non proprio improntati ai valori evangelici. Certo noi abbiamo una via d’uscita: la colpa è dell’«inimicus homo», il nemico della parabola della zizzania (Mt 13,24-43). È il nemico che ci denigra, che sparge male intorno a noi e su noi, mentre la nostra fedeltà al Maestro e Salvatore nostro è per sempre: indefettibile. Questa la nostra uscita di sicurezza.
Ma forse non basta più, perché certe cose non potranno mai essere attribuite allo Spirito Santo.
Perché ad avercela con noi non sono solo i nemici. Sempre più numerosi sono quelli che lasciano la casa del Padre e vanno a cercare “longinquus”, lontano, come il Figlio prodigo della parabola, un’aria più respirabile. Io sono pronto a scommettere che quel poveretto voleva proprio fuggire dal Fratello Maggiore, odiosa figura di secchione. Forse, se non ci fossero Fratelli Maggiori, i minori non se ne andrebbero. O almeno non così numerose sarebbero le fughe. E magari molto più numerosi sarebbero i ritorni di tanti Minori felici di ricredersi, di potersi convincere d’aver ritrovato, con il Padre, anche una famiglia nella quale sentirsi “a casa”.
Perché non è solo chi nega Dio e magari ne disprezza la stessa idea a rimproverarcelo; sono molte le voci anche dei cristiani fedeli, attenti, generosi nel servizio, laici e preti allo stesso modo, che muovono gli stessi rilievi alla chiesa-curia di Roma. Sarà proprio solo perché con la nostra presenza siamo già una condanna per loro e ce lo vogliono far pagare? O sarà che dietro le nostre parole essi sono portati a vedere mire di temporale potenza, di privilegio da difendere e da mantenere?
Non sarebbe soprattutto per loro che dovremmo bonificare tutto ciò che in casa nostra non è né buono né puro? Per esempio, da ieri la Chiesa ha 22 nuovi cardinali: di che son segno? Di povertà o di ricchezza, di servizio o di potere, d’umiltà o di concupiscenza degli occhi e di superbia di vita (1Gv 2,16)? Per averne un’idea basta guardarli. Abolire il senato del papa? Non è necessario. Vestirli diversamente, certo sarebbe meglio .

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