A ciascuno il suo cruccio e il suo lavoro


Da qualche giorno ho sempre davanti agli occhi le immagini crude, intollerabili, degli scontri di mercoledì 14 u.s. per le strade delle città italiane e un po’ di tutta Europa: dell’Europa, almeno, che si riconosce nella CEE e nell’euro.
Vedevo figli di mamma vestiti da poliziotti in tenuta antisommossa che manganellavano altri figli di mamma vestiti, questi, da picchiatori armati di mazze di baseball o di più volgari spranghe e bastoni purché potessero far male, e molto!, a chi se le fosse sentite cadere addosso per la mano d’un suo simile che odia e che vuole far male. Anche molto male.
Gli uni e gli altri schierati a testuggine, con gli scudi trasparenti per poter vedere meglio da cosa difendersi e dove colpire i primi; i secondi difesi da tavole-scudo decorate con slogan e frasi di guerra; gli uni e gli altri ugualmente disposti ad assaltare o a sprangare i loro simili, di qua e di là decisi a rompere teste e a farsele rompere pur di non indietreggiare di un metro. Erano queste le scene di cui parlavo in apertura d’articolo, scene che non riesco a scacciare dalla testa tanto era l’odio che ne trasudava.
E davanti a quell’odio mi sentivo impotente, inutile, superfluo. Che ci fa al mondo uno come me, mi dicevo, che non può far nulla in casi come questi; che al massimo, se gli capita la sfortuna di trovarcisi in mezzo, può solo darsela a gambe o nascondersi dietro un portone – se è abbastanza fortunato di trovarne uno aperto – o entrare in un negozio se appena fa in tempo a entrarci prima che ne vengano abbassate le saracinesche.
Confesso che mi capita spesso di provare quasi vergogna per non esserci mai, là in mezzo, dove si combatte per un ideale, giusto o sbagliato che sia, ma che sempre un ideale rimane.
Allora ti domandi che vuoi che gli interessi, ai tuoi Lettori, quello che tu vuoi scrivere sul matrimonio cristiano (giusto per riprendere un discorso avviato su questo giornale circa un mese fa sul divorzio di due cristiani che poi si risposano e che non possono più fare la comunione) quando ci sono popoli interi che vivono nella paura e nell’angoscia d’una vita che si fa sempre più dura, mentre le luci che possono illuminare la scena si fanno sempre più fioche.
Già, perché proprio di questo avrei voluto parlare oggi per formulare una proposta che a me pare interessante, ma che non ha proprio nulla a che fare con quello che in questi giorni occupa tutto lo spazio libero delle nostre menti e dei nostri interessi. Così mi stavo convincendo che era meglio lasciar via il matrimonio e di parlare di quell’orrenda violenza che ci sta sotto gli occhi.
Così avrei deciso. Poi però mi son chiesto che discorso è mai questo. Se tutti lo facessero, nel mondo non ci sarebbe più nient’altro che la guerra.
E invece no, così non dev’essere: e se da qualche parte il mondo brucia, altrove ci dovrà pur esserci qualcuno che pensa ancora a costruire giocattoli per i bambini, cravatte per gli uomini e calze per le donne, che pensa ancora al vino e ai cibi per le nostre mense, ai giornali e ai libri per la nostra passione per la storia e per l’uomo.
Così, mentre il meccanico ripara la mia macchina, il sarto cuce i miei vestiti, e il calzolaio risuola le mie scarpe, è giusto anche che l’opinionista dica la sua opinione. Perché forse c’è qualcuno che l’aspetta, e rimarrebbe male se non la trova.
E allora mi farò violenza e cercherò di dire ciò che mi è giusto balenato in mente nel ripensare al grave problema dei divorziati risposati cui sono tenuto a negare il sacramento eucaristico secondo la legge della Chiesa cattolica romana.
Un’idea che a mio giudizio potrebbe davvero risolvere una volta per tutte l’antico e doloroso nodo del digiuno eucaristico cui la Chiesa condanna il cristiano divorziato e battezzato. A me pare abbastanza nuovo, forse addirittura inedito, forse risolutivo.
Quando due fidanzati (termine ormai pericolosamente equivoco, ma che io prendo ancora nel senso più cristiano e tradizionale) si presentano al parroco per annunciargli la loro intenzione di sposarsi in chiesa, il parroco è tenuto a sottoporli a un esame per cercar di capire le loro vere intenzioni. Fra tutte le domande dell’esame ce n’è una che chiede ai futuri sposi (separatamente, perché la sincerità sia più garantita) se concordano con la dottrina della Chiesa che ritiene indissolubile il matrimonio e un peccato grave l’adulterio. Se uno solo dei due dichiarasse di non concordare su questo punto col magistero della Chiesa, il parroco/giudice dovrebbe premurarsi di far loro presente che la sacramentalità del loro matrimonio è quanto meno a rischio. In realtà non succede mai che uno della coppia dichiari che no, su questo punto non se la sente di dirsi d’accordo col magistero della Chiesa: essi sanno bene che in questo caso dovrebbero rinunciare al matrimonio in chiesa.
Ma sono convinto che nessun parroco se la sentirebbe di scommettere sempre sulla sincerità degli sposi in proposito, tranne che nei casi in cui egli stesso può dire di conoscere molto bene i due sposi. Troppi i matrimoni che pur celebrati in chiesa finiscono male. E non sono pochi poi quelli che una volta divorziati finiscono con lo sposarsi un’altra volta. In municipio stavolta. È questo un matrimonio non riconosciuto dalla Chiesa, anzi severamente riprovato. Per loro la porticina del tabernacolo non si aprirà più. A meno che non accetti di sottoporsi a pesanti condizione che in genere gli sposi rifiutano e di cui magari si potrà riparlare molto più avanti negli anni.
È qui che nasce la mia proposta: E se fosse proprio la Chiesa a prendere l’iniziativa? Come? Cercherò di dirlo con poche parole.
Ho già detto sopra che sono molti gli sposi che giurano il falso quando dicono di escludere assolutamente l’eventualità di un divorzio. In tutti questi casi il matrimonio, che a tutti sembrerà regolare, in realtà teologicamente e canonicamente non esiste. Ebbene, la Chiesa dichiari una volta per tutte, solennemente e chiarissimamente, che in tutti questi casi il matrimonio non è mai esistito, a causa della cattiva fede d’uno o di entrambi gli sposi.
Ciò significa che i due sposi, mai stati tali davanti a Dio, sono assolutamente liberi di risposarsi. Ma con un MA!
Il MA è questo. Il coniuge che ha subìto l’inganno tornerà libero di passare a nuove nozze, questa volta valide, si spera. Il colpevole, (lo spergiuro) sia invece dichiarato canonicamente incapace di nuove nozze. E mentre il primo che ha subito l’inganno sarà subito e senza bisogno di processo canonico, se non magari limitato al solo tribunale diocesano, per il secondo , la pena si configuri per coniuge ingannatore come una vera e propria scomunica lata sententia, cioè formalmente dichiarata ex officio dal tribunale ecclesiastico. Un provvedimento, questo, che potrà comunque sempre essere riscattato, in futuro, attraverso un adeguato atto di riparazione che preveda intanto la non sacramentalità del secondo eventuale matrimonio (come avviene per l’Oriente cristiano), ma che non giunga a escludere intanto la liceità del rapporto sessuale fra i coniugi. Una penitenza seria ed esemplare certo, ma pur sempre umanamente e cristianamente sostenibile. Ma intanto la parte innocente sarà stata subito libera di rifarsi una vita. Benedetta da Dio. Sacramentalmente piena. Una decisione che attirerebbe sulla Chiesa solo plauso e consensi. E tanta gratitudine.

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