Oziose considerazioni agostane sull’amore


Oziose, ma non troppo. L’amore è cosa troppo seria per trattarne sotto l’ombrellone. E di fatto io non sono al mare. Ne sto scrivendo dal mio solito posto di lavoro, in una delle sere più calde di questa non troppo calda estate.
Ho da poco assistito a un contenuto contrasto, contenuto sia nei modi sia nelle parole, fra due persone che si vogliono molto bene.
Mi sono sforzato di capire come si potesse arrivare a farsi male per motivi tanto banali. Perché quei due, lo so per certo, si vogliono bene e perché quel motivo era quanto di più sciocco si potesse immaginare. Perché allora farsi male? Si noti non dico che si siano voluti fare “del male” (un male cioè che vuol farti soffrire sul serio), questo no. Solo fare un po’ male, che tu capisca che mi sei dispiaciuto, e che sarà meglio che te ne ricordi in futuro. Come per esempio una parola dura volgare, che ti colpisca in faccia come uno sputo, che ti fa male davvero.
Ho cercato di capire perché quello scambio di asprezze, tra chi si vuol bene davvero, tipo un ragazzo e la sua prima ragazza, una mamma e una figlia, un padre e un figlio, o fra marito e moglie. Cosa scatta perché nasca questa voglia di far male e di ferire? E sebbene non fatichi a capire che di motivi ce ne possono essere molti, nel caso specifico non potevano esserci dubbi: era in gioco la supremazia fra i due.
Bisognava mettere in chiaro chi è che comanda fra i due, o almeno fissare certi paletti oltre i quali non è consentito all’altro di andare.
Si dirà: stai scoprendo l’acqua calda, mio caro. Lo so, è acqua calda. Ma anche se l’acqua calda la conosciamo da sempre, non per questo sarà inutile insegnare prudenza ai bambini e ricordarla alle casalinghe ai fornelli o agli anziani che non si rassegnano a esserlo.
Così, riflettendo spesso fra me e me, o con chi me ne parla e mi ripropone il problema, mi sono fatto l’idea che la maggior parte dei contrasti nel mondo nascono proprio da questa smania di tracciare confini, di mettere paletti, di chiudere le porte, perché nessuno minacci il nostro ruolo, si sogni di prendere il nostro posto, non importa quale sia. Perché ogni nido e un nido, tanto quello fra l’erba dell’allodola, quanto quello fra le nuvole dell’aquila.
La pulsione che ne deriva è sempre la stessa, che si stia fra le mura domestiche, in una scuola elementare, in ospedale o in carcere e fra gli stessi carcerati: immediatamente prende forma una gerarchia fra i prigionieri, fra i boss “in carica” e gli aspiranti mammasantissima del carcere, o del braccio, e perfino nella stessa singola cella.
Prendete un gruppetto di ragazzini che giocano sul campetto sottocasa: dopo due o tre giorni il gruppo, se rimane sempre lo stesso, avrà già un capo e se i capetti sono due, scatta la rivalità e il gruppo si divide in due. Paolo non era rimasto a Corinto due anni e già s’erano formati dei “partiti” e c’erano già quelli di Paolo, altri di Apollo, altri ancora di Cefa/Pietro (1Cor 1).
Ebbene tutto questo si ripropone in tutti i campi e in tutte le professioni e mestieri: dove si ritrovano più persone unite da uno stesso interesse, spunterà presto un capo, e le sue mense pulluleranno di servitori devoti e acchiappaposti: uno sport molto praticato in politica e dovunque si possa far carriera – chiese, sindacati, diplomazie…
Dev’essere scritto nei codici genetici: perché questo accade anche fra gli animali, specialmente fra i primati, dove le lotte per la supremazia sul branco o sulle femmine possono anche essere solo rituali, ma possono arrivare alla soppressione fisica del rivale. Gli etologi concordano nel dire che i giochi innocenti e innocui dei cuccioli dei felini sono già, in realtà, delle prove di eccellenza e di dominio sul branco.
Ora trasferiamo questo istinto di dominazione nel rapporto di amore fra due adulti umani innamorati (marito e moglie) e fra un adulto/a (padre/madre) e un bambino/a (figlio/figlia).
Tralascio per un momento il rapporto fidanzato-fidanzata, nel suo senso classico (escludendone dunque l’attuale corrente accezione, vagamente patetica, di relazione paramatrimoniale affettiva, nella quale molte cose restano come erano: residenza, convivenza saltuaria una volta da me una volta da te, qualche viaggio ai Caraibi insieme, doveri in autonomia verso i figli già avuti da precedenti esperienze…), perché quel tempo, il tempo dell’innamoramento, corrisponde a un momento magico in cui si vive, si respira, si sente e ci si sente in un atmosfera sospesa in cui niente vale e tutto vale, tutto è provvisorio e tutto è definitivo allo stesso tempo: se una cosa in lui/lei mi piace, sarà certamente così per sempre; se una cosa mi piace meno, o proprio mi dà fastidio, vedrai, cambierà, gliela farò cambiare, perché quello che conta è che ci vogliamo bene e il resto vedrai, si aggiusterà, tutto.
Poi si va a vivere insieme, e ci si accorge che le cose non stanno proprio così, che le cose che ieri mi facevano impazzire (oggi tutti ci fa “impazzire”, dalla nutella all’ultimo tormentone di spiaggia) oggi sono in realtà cose ordinarissime, anzi alcune già mi hanno proprio stufato, e quelle che ieri mi davano un po’ fastidio, oggi non le sopporto più proprio, vedrai che adesso glielo dico. Finalmente glielo dici e lui/lei ti risponde che a lui/lei va proprio bene così, e se a te non piacciono ti arrangi: lui/lei non può rinunciare alla sua libertà solo per i tuoi begli occhi.
È allora che incomincia la “guerra di posizione” cioè di difesa della propria posizione, mentre si comincia a tentare di erodere un po’ del terreno dell’altro/a, perché dev’essere chiaro che io sui miei principi non cedo, e se a lui/lei non sta bene, peggio per lui/lei, chi se ne importa…
Ma poiché la sua condotta, il suo modo di comportarsi, di parlare, di cucinare, di attaccarsi al telefonino o alla televisione per vedere lo sport, mi dà sempre più ai nervi, io esco sempre più spesso, torno a casa sempre più tardi, coltivo sempre più interessi e amicizie fuori casa, faccio sempre meno l’amore (con lui/lei; ma non è detto che sia così con tutti). Vedrai che glielo faccio vedere io chi comanda in questa casa, tanto oggi i calzoni li portiamo tutti e due ed è finito il tempo del padrone di casa e dell’angelo del focolare.
In queste condizioni, molte coppie, ufficiali o no, consacrate o civili che siano, entrano in crisi e molti matrimoni falliscono. Allora meglio non sposarsi per niente, né in chiesa né in municipio, così diventa tutto più facile, e ci risparmieremo pure quando dovremo dirci addio. Quando la guerra l’avremo persa entrambi.
Già perché pare proprio che le cose siano proprio a questo punto e che a tutti vada bene così. Anzi siamo ormai al punto che ci si comincia a chiedere ma come facevano i nostri genitori, i nostri vecchi a stare sempre, tutta la vita – oh, dico, tutta la vita, ti rendi conto? – tutta la vita insieme?
Allora chi si scandalizzava di Coppi e la Dama bianca, di Togliatti e della Iotti, gli ipocriti erano loro e quelli erano i martiri, le avanguardie delle magnifiche sorti e progressive che di un mondo che ha posto la felicità al di sopra di tutto.
Anche dell’amore.

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