Io, teologo in cravatta che va controcorrente


Visto l’interesse suscitato dagli ultimi due articoli sull’argomento della teologia come scienza, Claudio Sampaolo, collaboratore del Giornale dell’Umbria, ha avuto la cortesia di propormi un’intervista su temi riguardanti la mia persona, il mio lavoro, le mie idee. Ne è risultata la pagina che qui viene proposta.

Testo dell’intervista
Le prediche, spesso le tirate e le sottili provocazioni di don Antonio Santantoni (“ma quando firmo tolgo il don, non voglio creare pregiudizi in chi legge”) le trovate in questa stessa pagina tutte le domeniche. E non sono mai riflessioni a cuor leggero, esercizi di bella scrittura. No, sia che parli (bene) del film su Ipazia e della figura di Ipazia, martire del paganesimo, legandola (addirittura) al sacerdozio femminile, sia dei genitori-nonni, don Antonio è capace di buttare sassi nello stagno che fanno cerchi larghissimi, anzi alzano quasi le onde. Figuriamoci ora che ha preso di petto la teologia (“serve ancora?”, si è chiesto), lui teologo che ha deciso di fare il prete di campagna a Casalina, 400 abitanti e 25 persone in chiesa la domenica, peraltro senza indossare mai abito talare o clergyman, unicamente giacca e cravatta (“ma non è un mio vezzo, durante il Concilio persino l’attuale papa Ratzinger o il teologo Hans Kung vestivano così…”).
Don Antonio, i suoi ultimi articoli hanno fatto balzare dalle sedie parecchi dei preti che lei ha istruito e indottrinato, se così possiamo dire, negli ultimi 30-40 anni, e non sono pochi…

“A spanne un qualche migliaio, direi che tutti i sacerdoti umbri che hanno meno di 60 anni mi hanno ascoltato insegnare liturgia all’Istituto teologico di Assisi e in altre università e facoltà teologiche di Roma. Solo ad Assisi sono stati all’incirca 80-90 ogni anno per 33 anni. In questo caso non penso di aver detto una eresia: sostengo solo che la teologia non è “la più bella delle scienze”, faccio delle distinzioni. Di certo la teologia non è parola di Dio rivolta all’uomo, ma è la parola dell’uomo che tenta di dire qualcosa sul mistero di Dio. Non è una differenza di poco conto…”.

Detta da un teologo fa un po’ effetto… ma lei è stato sempre così analitico e, se vogliamo, controcorrente?

“In genere cerco di ragionare con la mia testa. Quando nel ’52 decisi di entrare in seminario avevo 13 anni ma non lo feci certo per sgravare la mia famiglia da un peso economico, come pure succedeva in quegli anni. Tra l’altro papà Zeno aveva fondato una piccola azienda che a Marsciano produceva gassose, aranciate, chinotti e spuma: ci bastava per andare avanti. Avrei potuto lavorare lì. Invece, a parte lavare le bottiglie dei resi o sciogliere lo zucchero con acqua e acido citrico in grandi tini e mescolare con forza per ottenere lo sciroppo, non ho fatto altro. No, ho voluto io fare il prete. L’ho capito una sera tardi, entrando nel cortile della chiesa di San Giovanni Battista – lo chiamavamo il priorato – che era proprio davanti a casa mia. Era buio, ma lassù in alto vidi la luce accesa nello studio del parroco, Padre Arsenio Ambrogi e pensai: vorrei fare come lui, dovrebbe essere bello vegliare sempre su una parte del popolo di Dio. Un simbolo – la luce – era stato più potente di tanti discorsi. Glielo dissi poco dopo, nel corso di un pellegrinaggio a Camoscio. Forse se l’aspettava. ‘Se ne può parlare’, sorrise… Poco dopo sono entrato in seminario, sei anni a Perugia, poi Roma, dove ho scoperto la passione per la teologia, laureandomi con una tesi sulle ordinazione episcopali”.

Un po’ tosta, vero…

“Anzi: è stato detto autorevolmente (mons. Mariano Magrassi, per anni punto di riferimento sicuro per tutti i liturgisti italiani) che la mia tesi era il miglior testo sull’episcopato scritto dopo il Concilio. Vi ho ripercorso una storia millenaria, piena di simboli e di significati sottintesi, nella quale tutti i cambiamenti corrispondono ad una intenzione precisa. L’anello, per esempio, da timbro sulla ceralacca, cioè autorità, è diventato simbolo nuziale: l’episcopato era come un matrimonio con “quella “ chiesa (diocesi) e solo con quella ed era assolutamente vietato cambiarla. Papa Formoso, vescovo di Porto, che ‘aveva osato’ farsi eleggere vescovo di Roma, fu riesumato: il suo cadavere, rivestito dei paramenti pontificali e seduto in San Pietro sul trono papale fu processato e condannato per simonia e adulterio (aveva sposato due diocesi). Egli fu spogliato e buttato nel Tevere…”.

Come dire che la Chiesa non andava tanto per il sottile…

“La Chiesa ha conosciuto tutto dell’umanità: il bene e il male, l’importante è saper discernere, conoscere, studiare. A Roma, da seminarista, capitai in un periodo denso di eventi: la morte di Pio XII, il suo funerale, la fumata bianca per l’elezione di Giovanni XXIII, che veniva spesso a trovarci in seminario; e quando noi andavamo a messa in San Pietro sedevamo sempre nelle prime fila. Ma è stata la partecipazione assidua alle ultime due sessioni del Concilio che mi ha permesso di conoscere molti teologi e filosofi d’Oltralpe, molti dei quali erano assai invisi alla Curia e alla teologia romana: da Jean Guitton a tanti altri che trasportavo per le vie di Roma a bordo della mia 500 bianca decappottabile, tanto che i miei compagni seminaristi la definirono, con una punta di ironia, locus theologicus. Di fatto è stato lì che la mia mente si è aperta e che ho capito quanto sarebbe stato importante studiare e poi insegnare teologia”.

Tornando all’inizio, possiamo riassumere grossolanamente il suo pensiero con più Vangelo e meno teologia? San Francesco, in fondo, con la sua predicazione umile, comprensibile a tutti, evangelica, ne ha fatto a meno…

“Francesco usava le parole del Vangelo e ci ha insegnato l’essenziale come aveva fatto Gesù; ci fa pensare ogni volta alla nostra disumanità quando godiamo del superfluo, rubandolo di fatto ai poveri. Dunque la teologia è certamente una scienza quando analizza i sacri testi dal punto di vista esclusivamente critico. E questo lo può fare un credente o un laico indifferentemente: resterà sempre e comunque il povero linguaggio di un uomo su Dio. Dopodichè, se cominciamo a chiederci chi è Dio per noi o cosa significa Cristo per il mondo, passiamo dalla scienza alla profezia, al dogma, all’indimostrabile. E’ noto che nessuno potrà mai dimostrare che Dio esiste, ma neanche potrà dimostrare che Dio non esiste. Pensi ad un cowboy che galoppa finché non trova il ciglio di un burrone: in quel momento ha tre strade da seguire. Se ha fede in sé stesso e nel suo cavallo salta, arriva dalla parte opposta e si salva; oppure è indeciso e facilmente precipita giù nell’abisso. O non ci crede e non salta proprio”.

Caro don Antonio, come è possibile che un sacerdote della sua statura e della sua preparazione sia ormai da più di 40 anni parroco di un piccolo paesino?

“Beh… a Perugia non mi hanno voluto. Ero stato designato dall’arcivescovo Lambruschini come suo segretario e lei sa che quello è spesso il primo passo per diventare vescovo, come è successo a molti personaggi importanti nella Chiesa (Papa Giovanni XXIII per tutti). Ero molto dubbioso, perché a me non interessava affatto la carriera e piaceva insegnare, ma una telefonata dal vicario generale di allora mi tolse dall’imbarazzo. ‘Non ti vogliono, don Antonio, il clero di Perugia dice che essendo già Lambruschini un professore… in due sareste troppi’. Successivamente ho avuto altri contatti, io sono un liturgista, cioè insegno e scrivo libri sui riti della messa, dei vespri, dei funerali, dei battesimi. Come si fanno e perché si fanno. Un paio di volte mi hanno chiesto, con molta discrezione, a cavallo fra i due secoli, di mettere la mia opera a disposizione della Diocesi e della Cattedrale di San Lorenzo, ma non è mai successo niente. Perché? Qualcuno, di cui preferisco non fare i nomi, mi ha detto ‘tu metti soggezione’. Non ho motivo per non credergli”.

Bene: e come fa don Antonio che mette soggezione a preti e vescovi a tradurre il suo sapere e diventare parroco di campagna? Non sarà anche lei tra coloro che fanno lunghe e incomprensibili prediche…

“No, no, mi adeguo sempre a chi ho davanti. Alcuni liturgisti sostengono che le letture vanno bene così, che non c’è bisogno di cambiare nulla, perché chi viene in chiesa è abbastanza edotto di tutto per capire un linguaggio anche difficile. Ma non è vero. Si possono usare parole e concetti comprensibili, popolari, senza rinunciare alla precisione. Invece che sincronico e diacronico si può dire benissimo contemporaneo e successivo”.

Come spiegherebbe l’aldilà? E soprattutto lei ci crede?

“Io sì, e ripeto a lei quello che dico ai miei fedeli: Gesù ha promesso una ricompensa eterna; io non so come si chiama, dove sta, quando arriverà… non so spiegare cosa sarà di me, cosa sarà del tempo, cosa vuol dire risurrezione della carne: non è comunque un concetto che si basa sull’esperienza, anzi parlo e parliamo di cose che non conosciamo. Personalmente sono stato contento di aver avuto questa speranza che mi ha riempito la vita, anche se, come disse Borges ‘non mi dispiacerebbe tornare nel nulla’…”. Però sono grato a Dio d’avermi dato la speranza di poter essere in eterno con lui, in lui. Come, non è cosa mia. Mi fido di Lui. Sono certo che non mi deluderà. ”

Don Antonio quante volte ha visto nella sua vita da sacerdote quella luce accesa che l’ha attirata da bambino?

“Tante, e spesso è stato l’amore delle persone a farmela vedere. Come quella vecchietta ormai ottantenne di un ospizio romano, ormai quasi cieca ma lucidissima, una di quelle alle quali ogni giorno parlavo di Vangelo. La Signorina Petrarca! Mi disse che mattina e sera si affacciava alla a finestra della sua cameretta e guardando alla cappella che era sotto di lei pregava per me con queste tenerissime parole ‘Signore, trattalo con delicatezza’…Sono convinto che quelle preghiere sono andate a segno, specialmente quando ho avuto dei problemi fisici importanti da superare. Oppure potrei raccontare di quando qui a Casalina decidemmo di fare un presepe in piazza, con statue ad altezza d’uomo. Ebbi l’idea di coinvolgere i bambini delle elementari ‘Vi piacerebbe che ci fosse la neve?’ gli chiesi. ‘Siiiiiiiiii!’. E io ‘dite un’Avemaria al giorno fino a Natale, ma una, non due sennò la neve ci copre’. Loro fecero proprio così, con l’entusiasmo proprio dei bambini. Ebbene: la notte di Natale, proprio quando uscimmo di chiesa, la strada e la piazza erano tutte bianche: la neve scendeva giù lenta lenta regalandoci una scenografia del presepe indimenticabile. La mattina seguente era sparita…Sono passati da allora una quarantina d’anni, ma ci sono ancora testimoni. L’ultima storia è recentissima. Avevamo la consuetudine di dedicare una domenica all’Avis, ai donatori di sangue, ma avevo più volte precisato che non doveva coincidere con altre ricorrenze, sicché quando mi comunicarono che sarebbe caduta il giorno del Corpus Domini dissi di no e loro se ne andarono al paese vicino. I miei parrocchiani si arrabbiarono, con questo don Antonio integralista, ligio alle regole. Così durante la messa, con un sole fuori che spaccava le pietre, parlai col signore e dissi ‘se stasera è ancora tempo bello significa che ho sbagliato e obtorto collo cambierò sistema’. Nel tardo pomeriggio arrivò qualche goccia, poi cominciò un temporale fortissimo che durò fino al martedì successivo…”. Questo la pregherei di non metterlo: è troppo fresco e molti dei protagonisti, tutti vivi, potrebbero risentirsi. E la pace ritrovata potrebbe esserne compromessa. Sarebbe un grosso guaio. La pregherei di sostituirlo con quest’altro episodio:
C’è un episodio della sua vita che vorrebbe raccontare ai nostri lettori? Qualcosa che ci dica di questa delicatezza di Dio verso di lei?
Un episodio della mia infanzia. Non avevo cinque anni: stavo correndo con i miei compagnetti, davanti a casa mia, sul marciapiede. Una macchina m’investì tagliandomi quasi di netto un piede. Era rimasto intatto solo il tendine. La caviglia frantumata. I medici volevano tagliare il piede. Si oppose un giovane medico venuto dal Rizzoli di Bologna. Si oppose. Sopraggiunse la setticemia. In Italia non c’era ancora la penicillina. Sembravo condannato. Mia madre, Anna, si “aggrappò” a S.Antonio. Una sera i medici le dissero: Signora, suo figlio è gravissimo: se ce la fa a passare la notte… Quella notte mia madre la passò in lagrime e preghiere. Forse s’addormentò. Credette di vedere S.Antonio che con la testa le faceva cenno di sì.
Lei fece una promessa: ‘Signore se lo vorrai per te, non te lo negherò’. Otto anni più tardi le dissi che volevo farmi prete. Qualche anno più tardi mi raccontò d’aver detto lì per lì al Signore: ‘Però, te ne sei ricordato!’. Così divenni prete.”