Il fumo di Satana nel tempio di Dio


Giovedì 29 giugno 1972, solennità dei Santi Pietro e Paolo, nella basilica di San Pietro in Roma, IX anniversario dell’incoronazione (allora si chiamava ancora così) di Sua Santità Paolo VI. Durante l’omelia, il papa esce con un’espressione che diventerà celebre: «da qualche fessura sembra che il fumo di Satana sia entrato nel tempio di Dio».
La frase fece sensazione. A rileggerla oggi quelle parole sembrano caricarsi d’un potenziale profetico assolutamente dirompente: altro che fumo di Satana! L’impressione che se ne ha oggi, è che la Chiesa sia vittima d’un rogo infernale capace di metterne a rischio la stessa sopravvivenza. Il dramma sta nel fatto che non si tratta di persecuzione mediatica, ma di fatti provati, fatti d’uno squallore e d’una gravità tali da rendere arduo il compito di individuare un periodo storico in cui la Chiesa abbia corso rischi più seri per la sua stessa sopravvivenza.
Ho ricevuto, una ventina di giorni fa, una e-mail in cui un caro amico, Angelo, spirito inquieto, esigente, curioso, sempre alla ricerca del senso delle cose, mi esprimeva certe sue inquietudini. Non gli ho risposto (rispondere è cortesia mi faceva presente), perché pensavo di dedicargli qualcosa più d’una breve risposta. La mia risposta è questa.
Così mi scriveva l’amico.
«Sono cresciuto respirando incenso nella mia chiesa di paese in Sicilia, famiglia di comunisti, e servendo messa; ero chierichetto. Ci fu un momento che volevo entrare in seminario. Facevo molte domande già allora, non raramente facevo indispettire il mio caro sacerdote, che non esaudiva con le sue risposte le mie domande, disperandosi. Ma mi voleva un bene dell’anima. Origliavo le discussioni che lui e il suo vice facevano durante la preparazione del Concilio, aperto sì nel ’62, ma preparato già da qualche anno. Nel ’62 avevo otto anni. Ascoltavo, ascoltavo, mentre litigavano, ma erano dei santi uomini, già anziani, sebbene non capissi quasi niente di “ecumenismo” e di “dialogo”, percepivo solo un termine: pace. Pace in terra e agli uomini di buona volontà. Uno era per il rinnovamento, l’altro aveva dubbi, ma entrambi si rimettevano allo Spirito Santo. Voi non ricordate l’atmosfera di quegli anni, molti di voi credo non fossero neanche nati. Io c’ero. L’atmosfera era positiva, piena di speranza. Papa Giovanni era un faro. All’improvviso la sua morte, mio nonno, in un angolo di casa, piangeva. Col passare degli anni, anziché diradarsi, i dubbi mi crescevano. Rinunciai al seminario, e mi misi in cammino. Ho vissuto nei conventi e per la strada, nelle sezioni di partito e nelle aule universitarie. Ancora sto cercando. Ma oggi ho nostalgia di quegli anni. No, molti di voi non hanno vissuto quegli anni. Per favore abbiate rispetto di quei Vescovi, Cardinali, sacerdoti e umili frati e sorelle, tutti cresciuti in quei seminari, il grano insieme alla gramigna. Per favore non infangate quegli anni, pecchereste contro lo Sprito Santo. Se mettete in dubbio quel Concilio, potrei seguirvi sulla vostra strada e mettere io in dubbio i Concili che molto amate, a partire dal Concilio di Nicea, presieduto d’imperio da Costantino, potrei polemizzare citando l’editto di Teodosio, oggi improponibile, e altri e altri ancora, ma è una strada che non porta in nessun luogo. Sono altre le domande che dovete porvi. Ricordate l’ultimo Giovanni Paolo II, il suo grido disperato sul “silenzio di Dio”? Il suo drammatico “perché”? Ricominciate da qui. Io sono ancora in cammino, ma sentendo molti dei vostri interventi pieni di acredine e fortemente ideologici, lasciatemelo dire, riprendo il mio cammino. Grazie per l’ascolto».
Grazie, Angelo, per questo momento di autenticità che mi hai regalato e che ora regali a tutti coloro che mi leggeranno. È vero, fra due anni saranno 50 gli anni che ci separano da quegli eventi, quando sembrò che la Chiesa stesse vivendo una nuova inattesa insperata pentecoste. Era tutto un fervore, una meravigliosa babilonia “pentecostale” di lingue diverse, nella quale molti sembrarono perdere la bussola e gridarono allo scandalo. Ricordo il mio professore di dogmatica all’Università del Laterano (di cui era anche il Magnifico Rettore), di cui per carità non citerò il nome; ricordo le sue sparate in classe, davanti a un’aula a emiciclo, le sue previsioni di inesorabili condanne dei teologi “novatores” «ben vengano a Roma, varchino pure le Alpi, a sentire la loro condanna. Roma non ha paura di loro».
Le cose, come è noto, andarono diversamente. Io fui presente in aula nelle ultime due sessioni (1964-1965). Ne ricordo il clima, l’entusiasmo, lo spirito. I dibattiti erano serrati, la passione totale. E ricordo il clima che si viveva in quei tempi, il cammino che poté sembrarci trionfale nelle chiese di periferia, nelle parrocchie, nei campi scuola: i giovani che prendevano d’assalto i presbitèri, invadendoli con le loro chitarre e i loro nuovi canti per la liturgia, le tanto contestate messe beat, le assemblee stracolme di fedeli quando si presentavano i nuovi riti liturgici, le prime celebrazioni comunitarie della penitenza (subito messe fuori legge in Italia e lo sono ancora!).
Sembrò a molti che la chiesa si fosse avviata su un pendio di perdizione, che si avviasse, cantando e danzando, verso la sua rovina. Che fosse quello l’inizio della fine? ci vien voglia ora di chiederci. Che abbiano avuto ragione, allora, i profeti di sventura? Che siano state quelle le fessure da cui il fumus satanae ha potuto penetrare nella Chiesa? Non sarebbe stato meglio mantenere l’antico rigore, per cui un prete lo potevi riconoscere subito come un prete, mentre oggi questi preti qui – come chi scrive – per sapere che è un prete, devi chiedergli la carta d’identità? Difficile dare una risposta che non appaia inficiata di partito preso. Allora risponderò a un’altra tua domanda, caro Angelo, e come a te la dedico a tutti gli altri che forse me la vorrebbero porre come me l’hai posta tu, ma non osano: in un altro punto della tua lettera, tu mi chiedevi se era vero che a rimanere invischiati nei casi di pedofilia, fossero soprattutto i preti anziani, quelli cioè che andavano vestiti di talare, che li riconoscevi lontano un chilometro, che “sotto il sole d’agosto, su quella strada bianca di polvere, non potevi immaginare nulla di più nero e di prete» (G. Guareschi, Don Camillo e il suo gregge). Ebbene sì, caro Angelo, è vero; almeno per ora è vero (domani chi sa?). Ciò potrebbe essere una conferma che non è l’abito che fa il monaco, e che se un abito ti può aiutare a preservarti da un peccato, non è detto che non ti possa aiutare a cadere in un altro, anche molto più grave (proprio ciò che è avvenuto nel caso della pedofilia). Che abbiano ragione il cardinale di Vienna e il suo clero, a chiedere la revisione della disciplina del celibato ecclesiastico? La domanda non è certo oziosa. Quanto al «silenzio di Dio», non sarà che lui tace solo perché noi gli abbiamo tolto la parola?

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