Chiesa anno zero


Chiesa anno zero? O Chiesa e Annozero? Ognuno decida come vuole: solo che questa volta, mutando l’ordine dei fattori, il prodotto cambia. E come se cambia! Ma il punto di partenza è uno solo: la Chiesa si sente, e di fatto lo è, sotto accusa.
A portarla sul banco degli imputati, questa volta, è stata la trasmissione di Michele Santoro di giovedì 20 maggio dell’anno di (dis)grazia 2010. Anno terribile, anzi “terrificante”, che continua una serie ormai inquietante di anni di passione per la Chiesa cattolica. Le lacrime di Benedetto XVI a Malta, quando ha incontrato le vittime degli abusi perpetrati sui minori da alcuni preti dell’isola, hanno commosso il mondo.
Quell’isola aveva ospitato Paolo scampato a un naufragio. In quell’isola è voluto andare Benedetto XVI in pellegrinaggio di penitenza e di conciliazione. Voleva domandare perdono, a nome di tutta la Chiesa, alle vittime degli abusi dei suoi preti. E questo ha fatto. Li ha incontrati, li ha ascoltati, li ha abbracciati, ha pianto con loro. Dove Paolo aveva seminato parole evangeliche, lui ha versato lacrime.
Giovedì avevo acceso anch’io la televisione, senza sapere di che si sarebbe trattato in quella puntata di Annozero. Pensavo si sarebbe parlato dell’addio di Santoro alla RAI: un accordo piccolo piccolo, di soli 16 milioni di euro. Quisquiglie.
Quando mi sono messo in ascolto, Santoro incominciava il suo assolo. Non me ne piaceva il tono: ho subito spento. Ho saputo poi che il mattatore ha parlato per quasi venti minuti, senza contraddittorio. Troppo per i miei gusti. È un genere di spettacoli che non amo.
Squilla il telefono, è una donna: «Sta guardando Annozero?». Ho risposto di no. Con voce accorata diceva: «Come si fa a parlare così, alla televisione, in prima serata, a raccontare certe cose!». L’ho riacceso; credo d’aver perso “il meglio”, ma quanto ho visto e udito mi è bastato per farmi star male.
Davvero “terrificante”! Far quelle cose lì, con bambini e bambine, e poi via sull’altare, a dir messa, cambiati solo d’abito e “di faccia”, ma con le stesse mani, la stessa bocca, lo stesso corpo: a consacrare e a benedire, ad assolvere e a dar la comunione…! Rivoltante!
Inorridivo a quelle confessioni. Soffrivo molto. Di una sola cosa non ero convinto: che tutti quei particolari, quelle descrizioni minuziose fossero veramente necessarie. Al grande Alessandro Manzoni erano bastate tre parole: «La sciagurata rispose». Anche a un imbranato come me, era bastato per capire.
M’è venuto un sospetto: che non si volesse solo informare, ma, piuttosto, infangare. Che il fango ci fosse, nessun dubbio; che non solo di fango si trattasse, ma di belletta nera, assolutamente d’accordo. Ma quando si deve svuotare un pozzo nero nessuno apre prima il pozzo e sparge tutti i liquami nel giardino “per rendere meglio l’idea”. Difficile non pensare a una volontà precisa, a un piano studiato per dimostrare qualcosa. Che cosa? Chiarissimo: per favore, vescovi e preti quanti siete, basta di salire in cattedra per darci lezione di morale; questo scandalo vi delegittima. Tutti. Completamente.
Ma bisogna assicurare la completezza dell’informazione: per i cittadini è un diritto, per i giornalisti un dovere! Sacrosanto. Con una sola riserva: perché, con qualche particolare in meno, qualcuno, forse, non avrebbe capito? Forse si sarebbe perso qualche dettaglio, ma chi avrebbe potuto aver dubbi su ciò che era potuto avvenire nelle “sacre stanze”?
Nell’articolo che ho già dedicato a questo tema, qualcuno mi ha accusato d’essere rimasto nell’ambiguità perché dicevo che non amo parlare di “tolleranza zero.” Per fugare ogni equivoco sarò ancora più chiaro.
Io parto da una costatazione: i casi di cui si parla, sono soprattutto casi vecchi o casi “di vecchi”. Casi o di molti anni fa, o casi anche recenti ma commessi per lo più, da preti avanti con l’età. Indulgenza a buon mercato? No di certo. Prendo solo atto che quei tristi personaggi sono tutti (o quasi tutti) collocabili entro un dato lasso di tempo; il tempo dei seminari chiusi e dei seminaristi “coltivati in serra”; il tempo delle “vocazioni a undici-dodici anni; il tempo in cui venivamo educati a vedere tutto ciò che riguardava il sesso come peccato e come male assoluto. “In materia di sesso non si dà materia leggera” ci si diceva. Ciò significava che indugiare in un pensiero, guardare un’immagine, peggio ancora una donna avvertendone il fascino e acconsentendo a quel pensiero o a quel fascino era peccato mortale. Sempre mortale!
Potevi arrivare all’ordinazione presbiterale senza conoscere e senza conoscerti. Rimandando il tutto a dopo, come per una donna che si sposava. Ma allora c’erano gli anticorpi: le mamme, le sorelle, i fratelli con famiglia, il parroco anziano che avviava il prete giovane alla pastorale, con partecipazione attenta e delicata.
Invece c’era stato il Sessantotto, la rivoluzione sessuale, l’emancipazione femminile e la caduta di tante barriere. L’omosessualità si avviava a non essere più un tabù.
Così che molti di quei giovani preti si sono trovati in un mondo diverso da quello che avevano conosciuto loro, un mondo a cui non erano stati preparati. Ce n’è abbastanza può spiegare come mai in tanti possano essere caduti.
Ecco perché concludevo il mio articolo invocando dalla Chiesa un solenne mea culpa da recitare “davanti e con i preti pedofili”, riconoscendo ognuno la propria parte di responsabilità in questa “terrificante” tragedia. La Chiesa sembra invece voler scaricare tutta la colpa sui singoli preti e dichiararsi, lei, innocente.
A quella generazione appartengo anch’io. Non ho quelle colpe, ma so come sono stato educato.. La colpa è anche di chi non li ha saputi preparare, capire, selezionare, formare o fermarli prima quei preti; e di chi poi non ha saputo guidarli con mano ferma e caritatevole, severa e dolce insieme: li hanno coperti quando andavano severamente ammoniti, dirottati su altri teatri di abusi e di peccato quando, a causa delle recidive, andavano immediatamente deposti o denunciati, perché chi ci andava di mezzo erano loro, i bambini e gli adolescenti dell’uno e dell’altro sesso. Solo così si sarebbe potuta smarcare da ogni corresponsabilità.
Ecco perché ribadisco che per la Chiesa non è più tempo di tolleranza zero: è invece il tempo d’una pietà infinita, della misericordia partecipe e consapevole, di adeguati propositi di conversione e soprattutto della disponibilità ad abbattere tabù (celibato o adozione di un celibato ad tempus, con possibilità di passare a un ministero, sempre ufficiale, ma che non lo preveda necessariamente, ecc.); tempo di maggiore prontezza a cogliere il senso vero, profondo, non di rado santamente eversivo dei segni dei tempi, disponibilità a camminare con i tempi della storia, senza dover sempre rincorrerla per poi trovarsi quasi sempre in ritardo.
Questo io vorrei, e questo sarebbe il segno che questo autentico flagello non sarà stato invano. La mia risposta al dilemma iniziale? Chiesa anno zero. Si riparte. Da oggi.

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