Un giorno che non avrei voluto vedere


Davvero, ne avrei fatto volentieri a meno. Da oggi (il giorno preciso non ha alcuna importanza, mese più mese meno) sarà possibile chiedere a un parroco una messa in latino. Basteranno che la chiedano trenta teo-snob: teo-con estetizzanti e magari atei o agnostici (come certo più d’uno dei settanta intellettuali italiani e dei cento francesi che hanno firmato gli appelli pro-messa-in-latino), o anche trenta devoti-con di quelli che “vuoi mettere una messa in latino, magari in gregoriano o polifonia”. E il povero parroco dovrebbe accontentarli. Infatti se quelli hanno il diritto di richiederla, il parroco dovrebbe avere, almeno in teoria, il dovere di concederla.
E mi viene da ridere (o da piangere, che è poi lo stesso) anche solo a immaginare che latino verrà fuori dai tanti preti infracinquantenni che non hanno mai studiato il latino. E la stessa cosa, si potrebbe scommettere, accadrà per tanti preti che da almeno 37 anni non hanno più masticato una sola parola di latino, da quando cioè la riforma li ha liberati dal peso del messale di San Pio V (perché sempre di quello si trattava, anche se rivisto dal buon Giovanni XXIII). Era il 1962, e in quel ‘mensis horribilis’ la curia romana gli fece collezionare due figuracce storiche con quell’ossessione della lingua sacra e ufficiale della Chiesa: nel giro di 24 giorni (dal 22 febbraio al 18 marzo) gli fecero firmare quella specie di infortunio clamoroso che fu la costituzione apostolica Veterum sapietia e, appunto, la nuova edizione del Messale Romano che ebbe la magrissima vita di solo circa un triennio (il card. Lercaro firmò il nulla osta alla stampa del primo Messale che accoglieva nelle sue pagine la lingua italiana il 12 marzo del 1965, a Concilio non ancora concluso). Ora, dopo un’ibernazione di 42 anni quel Messale esce dal suo stato di congelamento, anche se, in realtà, alcune chiese o abbazie hanno sempre avuto licenza di celebrare col messale del 1962. Sarà interessante sapere se sarà vera vita, o se sarà solo qualcosa che somiglierà piuttosto a un museo delle cere.
Il fatto mi dispiace, ma non mi sorprende. Purtroppo il dopo-concilio ci ha abituati a questi giri di valzer in fatto di liturgia, specialmente nella Chiesa italiana. Ricordate? La riforma aveva subito accettato la comunione sulle mani, ma la Chiesa italiana l’ha subito bloccata. In Italia non è opportuno e al papa dispiace. Si andò avanti così per una ventina d’anni. Si voleva che i tempi maturassero e, coi tempi, le coscienze. Ma il tempo passava e le coscienze non maturavano.
A questo proposito fui protagonista d’un episodio fra il grottesco e il curioso, proprio nell’anno in cui si concesse anche all’Italia la comunione sulle mani. Era l’agosto del 1989. Accadde a Cividale del Friuli, in cattedrale. Si stava celebrando la Messa. Ero vestito in borghese e nulla diceva la mia condizione di prete. Alla comunione, mi avvicinai all’altare e tesi in avanti le mani. L’anziano celebrante, un canonico, si rifiutò di pormela sulla mano, e così, con tutta la gente in fila, ci regalò una vera catechesi sul corretto modo in cui il laico deve avvicinarsi al sacramento eucaristico.
«Ecco, cari fedeli, a cosa può portare un malinteso senso di eguaglianza nella Chiesa. Questo bravo laico, certamente un buon cristiano, chiede la comunione sulla mano. Egli dimentica, o non sa, quale differenza corre tra la mano consacrata del prete e la mano non consacrata del laico. Solo le mani unte dal crisma possono toccare l’Eucaristia. Questo stabilisce la Chiesa e questa è anche la volontà del papa ed è giusto che i vescovi italiani ne seguano le indicazioni». Ascoltai tutto ciò in silenzio, nella massima tranquillità. Alla fine mi guardò come per chiedermi: allora? Allora io porsi la mia lingua e lui vi appoggiò soddisfatto la Particola.
Terminata la Messa lo seguii in sacrestia. Mi avvicinai. «Monsignore – cominciai – lei stamattina ha mancato di carità e di dottrina. Lei ha approfittato della sua posizione per infliggere a me un’umiliazione e per impartire una lezione di cattiva teologia e un’errata informazione sulla materia. L’unzione delle mani non è dirimente in proposito: per secoli le mani dei preti non ricevettero unzioni di sorta, e per secoli i fedeli hanno ricevuto l’Eucaristia sulle mani, senza che nessuno se ne inquietasse. E poi: non è vero che i vescovi italiani e il papa siano oggi contrari alla comunione sulla mano: a maggio la CEI ha finalmente detto di sì. E ha detto di sì perché sapeva che il papa non era (più) contrario».
La reazione del buon canonico fu dura: «Non è vero, questo è falso, io leggo i giornali». «Monsignore, lei leggerà i giornali, ma io le posso dire che l’Episcopato Italiano ha pronta una ‘Istruzione sulla Comunione Eucaristica’ in cui sarà indicata la data e i modi di attuazione della delibera della CEI. Glielo do per certo: perché quell’Istruzione che porterà la firma del Card. Poletti e di Mons. Ruini, l’ho scritta io, personalmente». Lo salutai rispettosamente e uscii.
Un altro caso di questi persistenti ondeggiamenti che denotano quanto meno indecisione e forse poca chiarezza di dottrina: lo spostamento della Cresima a dopo la Prima Comunione. È risaputo che questa decisione è sempre stata fortemente osteggiata dai liturgisti, ma la si è ritenuta utile per la pastorale. Molti anni fa, feci presente a un vescovo umbro, valente teologo, che s’era trattato di un grave errore. Ne convenne, però, aggiunse: «Ora non possiamo tornare indietro. Probabilmente se ne riparlerà fra una ventina d’anni… o trenta». Questo poneva seri problemi sia sul piano teologico e liturgico sia su quello ecumenico. Feci osservare che la soluzione trovata aveva contro tutto l’Oriente ortodosso, tutta la storia del sacramento e la stessa teologia del medesimo: «L’Eucaristia è sempre stata vista come coronamento e pienezza dell’iniziazione cristiana. Come può darsi pienezza se manca il dono dello Spirito Santo?». Mi rispose: «Tu hai certamente ragione, ma mettiti nei nostri panni: come possiamo adesso fare marcia indietro? Vorrebbe dire riconoscere che abbiamo sbagliato». «Ma avete sbagliato» obiettai. «Si forse, ma vedrai che fra una ventina d’anni se ne riparlerà e allora le cose torneranno a posto». Risposi: «Allora sarà tardi, perché allora i danni saranno stati fatti». Gli ricordai che è la ‘lex ordandi’ che stabilisce la ‘lex credendi’: «La Chiesa crede ciò che prega». Insegnando liturgia e teologia dei sacramenti da una trentina d’anni, posso testimoniare quanto gravi sono i danni già arrecati da questo errato modo di ‘celebrare’ i sacramenti: gli studenti stentano a capire la differenza fra Battesimo e Cresima. Ora mi dicono che a Roma il problema è finalmente tornato all’ordine del giorno. Quando sarà, sarà comunque tardi.
In fine, solo un accenno alla riconciliazione dei peccati senza la confessione individuale al sacerdote. Una riforma tanto attesa ma subito posta sotto naftalina in Italia. Oggi si pratica in gran parte del mondo, ma in Italia è ancora proibita.
Ma sulla messa in latino a vantaggio degli esteti e dei nostalgici non si ha paura di tornare indietro. Ricorderò questo giorno come un brutto giorno. La causa di tutto è in quella norma che riserva alla Santa Sede la competenza esclusiva in fatto di liturgia. Per 1500 anni non era stato così. Se sbaglia questa o quella chiesa minore, il male è poco e lo sbaglio si corregge presto. Ma se sbaglia Roma sono guai seri. E purtroppo Roma ha sbagliato molto più d’una volta.