Quel fiume rosso tra due bianche sponde


Ho impresso ancora negli occhi quel fiume rosso che inondava le strade di Rangoon e che riempiva di sé le pagine dei giornali di qualche giorno fa: migliaia di monaci buddisti, nelle loro vesti rosse – le teste rapate a zero, una spalla e mezza schiena e mezzo petto nudi, scalzi, bagnati per la pioggia o con un fazzoletto bianco sulla testa a ripararsi dal sole, il passo svelto, quasi la risposta a una voce che ti chiama e ti dice di far presto: ché non t’accada d’arrivare un secondo dopo del passaggio del treno della storia).
Lo guardo, affascinato rapito turbato conquistato da quello spettacolo nuovo, inedito per noi occidentali opulenti, inatteso, insperato. Mi pareva che quel fiume mi raggiungesse come una piena montante, travolgendomi, trascinandomi: e mi pareva che il naufragare in questa corrente di passione e di sangue mi colmasse di gioia. «Al mio cantuccio donde non sento / se non le reste brusir del grano» ora un vento impetuoso mi portava, sulle vie dell’etere e dell’elettronica, una visione inedita, straordinaria, gravida di speranze e di minacce, di promesse e di rimproveri.
Gli ultimi due o tre giorni, le ultime notizie e le ultime immagini stanno facendo pendere la bilancia assai più verso l’apprensione e la paura che verso il conforto della speranza. Rangoon come Varsavia ‘44, come Budapest ’56, come Praga ‘68, come Tienanmen ’89…? A giudicare da ciò che riesce a filtrare tra le maglie della irosa censura governativa, sembra quasi inevitabile. Ancora una volta le speranze dei dimostranti erano tutte poste sulla capacità di pressione delle democrazie vuoi dell’Occidente vuoi dell’Oriente, ma ancora una volta queste speranze si riveleranno probabilmente mal riposte: troppi i timori diffusi, troppi gli interessi contrapposti, troppe le paure delle grandi potenze di inimicarsi questo o quell’alleato, questo o quel partner commerciale, troppi gli interessi legati all’una o all’altra scelta.
Così, a meno di qualche improbabile miracolo (improbabile, ma non impossibile: qualche miracolo si è pur visto: le rivoluzioni di velluto, il crollo indolore della cortina di ferro, la caduta del Muro di Berlino al suono delle sole trombe di Gerico), se non avviene l’imprevedibile, dovremo forse riporre, non sappiamo per quanto, la speranza di vedere tornare la democrazia in un Paese che molti di noi avevano imparato ad amare per i romanzi di Emilio Salgari e per lo struggente film di Kon Ichikawa ‘L’arpa birmana’ (1956): una parabola di grande spessore morale, che ebbe grande fortuna e che mi piacerebbe vedere riproposto in qualche modo (TV, dvd, Sky) in questi giorni di trepidazione.
Sono già corsi fiumi d’inchiostro sui recenti avvenimenti; fedele al senso e alla vocazione di questa rubrica vorrei proporre alcune riflessioni molto ‘mie’. E incomincerei proprio dal titolo, dove si parla di un fiume rosso tra due sponde bianche. Quel ‘fiume rosso’ sono loro, i protagonisti di questo grande sogno di fine estate che minaccia di trasformarsi in orrido incubo di inizio inverno. Quel ‘fiume rosso’ sono la migliaia di monaci che marciano con passo sicuro e veloce, un passo di sfida dichiarata, verso un futuro nel quale non soltanto si crede, che non soltanto si aspetta, ma che si vuole affrettare, nella consapevolezza che esso non arriverà se qualcuno che gli prepara la strada.
Le ‘due sponde bianche’ sono invece gli altri, i giovani e gli adulti ‘normali, i ‘fedeli’ buddisti comuni in camicetta bianca, che per tutta la lunghezza del corteo, tenendosi per mano, formavano una catena umana che camminava con lo stesso passo dei monaci a offrir loro solidarietà, partecipazione e protezione. Straordinaria questa metafora visiva del syn-odòs, del camminare insieme: insieme verso la meta comune, insieme a sfidare la repressione violenta e le minacce di prigione e di morte. E mentre guardavo e riflettevo, un senso di dolorosa frustrazione mi invadeva la mente e il cuore. 500.000 i monaci di Birmania. A questi vanno aggiunti i giovani che vanno in monastero per sei o più mesi, per fare l’esperienza del monastero: dell’essenziale, della povertà, e soprattutto del silenzio. Tornando nel mondo, resterà in loro la stima e l’ammirazione per i loro monaci.
Facevo fra me il confronto tra ciò che vedevo sullo schermo TV e sul monitor del computer e ciò che vedo ogni giorno nella realtà che mi circonda. Chiese sempre più vuote, parrocchie sempre più sguarnite di parroci, monasteri e conventi che si chiudono, si vendono o vanno in rovina. Se poi apri certi blog, se visiti certi siti, se vai a vedere certi film o teatri, o leggi riviste giornali saggi e romanzi ti senti rovesciare addosso cumuli d’indifferenza, di derisione, di ostilità, fino all’odio vero e proprio. Noi ne diamo la colpa al ‘Mistero del Male’, all’eterno conflitto fra Dio e il suo nemico. Ma sarà questa una lettura corretta, mi chiedevo, che rende bene il senso di ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi e che riguarda anche noi?
Mi ha vinto un senso di angoscia. Da una parte decine di migliaia di monaci in silenzio, la cui ‘voce di tuono’ ha avuto l’effetto di svegliare il mondo da un torpore colpevole e ottuso: uomini che agiscono senza fare proclami, che camminano a piedi nudi per non far male né a un verme né a un fiore. Di qua intere librerie piene di documenti ufficiali che nessuno legge, proclami, richiami, disapprovazioni, censure, condanne, riduzioni al silenzio che i miei fratelli ascoltano con fastidio, con rabbia, con rancore, o nel caso migliore con perfetta indifferenza, ignorandoli. Di qua, ancora, manifestazioni galattiche che raggiungono ogni angolo di mondo. Davvero non sappiamo più parlare agli umani? Mi è venuto in soccorso il pensiero di Madre Teresa di Calcutta e delle sue figlie e compagne di carità: e se smettessimo di pontificare e affidassimo il Messaggio all’umiltà del silenzio e alla forza della testimonianza? Un esempio solo: in tutti questi mesi mi chiedevo perché la voce della Chiesa non si sente nella campagna in corso contro la pena di morte? È risuonata alta e forte, intendo dire da protagonista, al Palazzo di vetro? Perché da anni ha lasciato ai radicali di Pannella la meritoria campagna ‘Nessuno tocchi Caino’? Perché quando s’accende il Colosseo per un’esecuzione capitale, non s’accende anche il Cupolone? Non crede che la sua voce potrebbe poi risuonare più credibile quando difende la vita nell’utero e sul letto di morte?

,