O Dio, o il diluvio universale


Un uomo col cuore in tumulto – una grande notizia da dare e un’improvvisa paura che lo soffoca – entra nel bagno: nella vasca giace un bambino, l’acqua rossa di sangue e un braccio penzoloni che perde sangue dal polso tagliato dalla lametta. Le grida strazianti dell’uomo, la corsa dell’ambulanza all’ospedale, le lunghe ore di attesa davanti alla porta ostinatamente chiusa d’una sala operatoria. Nessuno che ti dica qualcosa, che t’induca a sperare. E il cuore che ti scoppia. Quest’uomo racconta così la sua notte di incubo all’ospedale:
«So cosa devo fare. Mi guardo attorno, con il cuore che mi batte in petto come un martello pneumatico e il sangue che mi pulsa nelle orecchie. Alla mia sinistra vedo uno sgabuzzino buio. Entro e trovo quello che cerco. Afferro un lenzuolo bianco da una pila di biancheria e torno in corridoio. Chiedo a un infermiera dove sia l’ovest. Lei non capisce e aggrotta la fronte. Mi fa male la gola e mi bruciano gli occhi. A ogni respiro mi sembra di inspirare fuoco. Chiedo di nuovo. Supplico. Un poliziotto mi indica l’ovest.
Getto sul pavimento il mio improvvisato tappetino per la preghiera, mi inginocchio, tocco il suolo con la fronte. Le mie lacrime bagnano il lenzuolo. Non prego da quindici anni. Ho dimenticato le parole. Ma non importa, reciterò le poche che ricordo. “La illaha illa Allah, Muhammadu rasul Allah”. L’unico Dio è Allah e Maometto è il suo profeta. Capisco che Baba (il padre, che non credeva in Dio, n.d.r.) si sbagliava, Dio esiste, è sempre esistito. Vedo Dio negli occhi di queste persone assembrate in questo corridoio della disperazione. Questa è la sua vera casa, non il ‘masjid’ (moschea) bianco con le luci che sembrano diamanti e gli imponenti minareti. Dio esiste, deve esistere e io lo prego. Lo prego che mi perdoni di averlo ignorato per tutti questi anni, che mi perdoni i tradimenti, le menzogne e i peccati. Mi rivolgo a Lui adesso, nell’ora del bisogno, Lo supplico che sia misericordioso,clemente e benevolo come dice di essere nel Suo libro. Mi inchino verso occidente e bacio il suolo. Prometto di compiere la zakat (l’imposta rituale per la purificazione dei peccati, terzo pilastro dell’Islam) il namaz (preghiera islamica), il digiuno durante il Ramadan. E poi continuerò a digiunare, imparerò a memoria ogni singola parola del Suo santo libro, andrò in pellegrinaggio in quella torrida città del deserto e mi inchinerò davanti alla Ka’bah. Penserò a Lui ogni giorno a partire da oggi, se solo mi concede quest’unica grazia: le mie mani si sono macchiate del sangue di Hassan (padre del bambino e fratellastro illegittimo del protagonista), prego Dio che non lasci che si macchino anche del sangue di suo figlio… Sento su di me gli occhi di tutte le persone che si trovano nel corridoio, ma io continuo a inchinarmi verso occidente. Prego. Prego che i miei peccati non siano imperdonabili come ho sempre temuto».
Passa la notte nell’attesa che succeda qualcosa, che qualcuno venga a dirgli come andrà, cosa deve aspettarsi. A un tratto: «Sento dei colpetti alla spalla…Vorrei essere lontano mille miglia da quest’uomo, perché non credo di poter tollerare quello che è venuto a dirmi. Dice che il ragazzo si è fatto tagli profondi e che ha perso molto sangue. Le mie labbra meccanicamente incominciano a mormorare quella preghiera: ‘La illaha illa Allah, Muhammadu rasul Allah’. “Abbiamo dovuto fargli molte trasfusioni”. Come farò a dirlo a Soraya? “Abbiamo dovuto portarlo in rianimazione due volte…”. Farò il namaz, farò la zakat. “Se il cuore non fosse stato così giovane e forte sarebbe…”. Digiunerò. “È vivo”. Il dottor Nawaz sorride. Mi ci vuole qualche momento prima di afferrare il senso delle sue parole. Dice dell’altro, ma io non lo seguo più. Bacio le mani piccole e grassocce di questo estraneo e piango di gioia.»
Questa lunga citazione costituisce più della metà di questo articolo. Spero di non aver violato la legge sui diritti d’autore. Del resto non intendo appropriarmene il merito. Questo brano (certamente lungo per una citazione, brevissimo per chi lo legge sul libro) è il momento clou del fortunatissimo romanzo di Kalhed Hosseini, Il cacciatore di aquiloni (ed. Piemme 2004).
Autore musulmano, nato a Kabul, dunque Afghanistan. Figlio di diplomatico, trapiantato negli USA, California. Medico. Perché tanto interesse? Non per il romanzo in sé stesso – molto bello, ma forse un po’ troppo ‘costruito’ intorno a quel genio del male il satanico Assef. E allora perché? Per due grandi lezioni che contiene, una di natura religiosa e una di natura umana ma con attinenza immediata al religioso.
Prima lezione, assolutamente compiuta: il protagonista Amir, proprio come il suo scettico (se non proprio agnostico o addirittura ateo) Baba, si era da sempre disinteressato della sua religione (l’Islam); ritrova la sua fede in Dio quando ne ha bisogno: Dio «deve esistere» perché lui, Amir, ne ha bisogno.
Questa affermazione mi ha colpito perché vi ho ritrovato pari pari quell’idea che io stesso tante volte ho espresso nei miei articoli: io credo in Dio non perché sono convinto (in base a un ragionamento) che “Dio c’è”, ma perché di lui io sento un assoluto bisogno. Questa fede, più che una conquista della mia ragione è la risposta a un bisogno del cuore. Per poter vivere ho bisogno di dare un senso alla mia vita, e la mia vita non rischia certo di perdere il suo senso nella buona sorte, quando la vita mi sorride, quando l’amore mi consola e la fortuna mi bacia. È nel dolore, nella disperazione, nel fallimento che la mia vita perde il suo senso. Nella sconfitta. Era cominciata così, anche per Amir, la via della conversione da quel ragazzo egoista, viziato, bugiardo, vigliacco che era: la via di un riscatto faticoso, contraddittorio, lento; con la fuga da Kabul sotto lo spauracchio dei talebani, con le peripezie della fuga, con l’arrivo in America e la perdita dei privilegi della ricchezza. In California ha conosciuto la povertà dell’immigrato, del piccolo rigattiere che deve spingersi il carretto, una casupola al posto del palazzo; e poi la morte del Baba e il tarlo del rimorso che t’accompagna. E quando questo rimorso ti spinge, anzi ti costringe a compiere gesti e atti che fin lì altri avevano sempre compiuto a tuo vantaggio e tu avevi ricambiato solo con fughe, menzogne e gesti di viltà, è solo allora che tu puoi riscoprire te stesso e con la verità su te stesso, puoi riscoprire Dio. E quando lo avrai ritrovato, troverai, con Lui, anche il suo perdono, senza bisogno del mullah, senza bisogno del prete diremmo noi.
Conosco l’obiezione: come può il tuo bisogno provare l’esistenza di Dio? Di tante cose avremmo bisogno, ma che il nostro bisogno non basta a creare. Sarà anche così: ma io so che se mi vedo in Dio, sento d’aver un senso e se da Dio mi ‘dis-traggo’ non sono solo io a farmi schifo, ma è il mondo intero. Nel romanzo il bimbetto che tenta il suicidio era stato giocattolo dell’immondo Assef e compari. Nella realtà (è notizia di ieri): scommesse sulle lotte e la boxe di bambini di 5-6 anni; gli adulti ridono e scommettono sul loro pianto. Vorrei proprio che, se non c’è un Dio capace di metterci una pezza almeno ‘dopo’, ce ne fosse almeno uno capace di mandarci a tutti un altro diluvio. E stavolta universale davvero.