Né il silenzio né la denuncia. Serve il coraggio (2)


L’articolo di ieri terminava con l’espressione della mia simpatia a mons. Fisichella per la grande dignità dimostrata. Perché riconoscevo che la sua causa era persa in partenza. Persa come molte battaglie in cui la Chiesa si è impegnata o si sta impegnando in questi ultimi secoli, almeno da Copernico in poi. Battaglie nelle quali qualche parziale vittoria non pare in grado di riparare le molte sconfitte subite.
Nata per essere lievito, la Chiesa si ritrova spesso a contrastare i germi di rinnovamento e di trasformazione della realtà. Questo atteggiamento lo chiama volentieri fedeltà al messaggio o al depositum fidei o alla Tradizione; poi in realtà si accorge che è stato solo un ritardo sui tempi, ritardi che hanno comportato gravi perdite di credito tra i fedeli.
Che c’entra tutto questo col caso dei preti pedofili? Oh se c’entra! Intanto sembra, stando alle cronache, che i casi di pedofilia di cui si discute, sembrano attribuibili soprattutto a preti di una certa età, portatori dunque di deficit di formazione storicamente databili. Erano tempi diversi, tempi in cui i candidati al sacerdozio erano per lo più dei ‘predestinati’ – dai genitori, dallo zio prete, dalla stessa povertà delle famiglie –; gli stessi seminari, concepiti come una difesa contro il contatto con la donna, poneva i ragazzi in una innaturale contiguità tra maschi, tutti giovanissimi e tutti nel momento della pubertà, nel momento cioè in cui le tempeste ormonali raggiungono picchi altissimi. I superiori dei seminari ne erano perfettamente consapevoli; e soprattutto la confessione e la direzione spirituale contemplavano molto spesso un problema: quello delle ‘amicizie particolari’. Nessuno di noi capiva che fossero, a meno di non averne già fatto l’esperienza, e normalmente pensavamo che amicizia particolare fosse una semplice particolare simpatia nella quale ci era ben difficile scoprire qualcosa di male. Io compresi solo anni dopo il senso d’una scena a cui avevo casualmente assistito. Al suo protagonista principale, quello attivo, l’anno seguente, fu interdetto di rientrare in seminario.
Proprio da qui vorrei partire per dire con compiutezza ciò che penso di tutta la questione e a che cosa alludo quando nel titolo parlo di «coraggio».
Incomincio col dire cosa non intendo. Non intendo né il coraggio di denunciare lo scandalo ai fedeli della comunità, né il coraggio di denunciare il colpevole alla magistratura. La prima denuncia, quella alla comunità dovrà essere tenuta come l’ultima arma cui si dovrà fare ricorso dopo un primo richiamo a tu per tu, fatto da un confratello o dal vescovo stesso e dopo un eventuale secondo, o anche terzo richiamo da parte dell’autorità. Il pericolo più grave da evitare, in questi casi, non è lo scandalo dei fedeli, ma la continuazione dell’attività delittuosa del reo. La severità della disposizione disciplinare potrà anzi compensare, agli occhi dei fedeli, lo scandalo arrecato dal delitto stesso. Si saprà almeno che l’autorità non ne è complice. L’errore e il danno rimarranno circoscritti. Di fronte a un richiamo ufficiale disatteso, non potrà che scattare la sanzione. Non il trasferimento, ma la sospensione dall’incarico o l’espulsione dall’ordine (non dal sacramento, cosa impossibile, ma proprio dall’«ordine, albo» dei diaconi, presbiteri o vescovi, come si parla di radiazione dall’ordine dei medici, degli avvocati, ecc.). Decadenza, dunque, non dal sacramento, ma dall’esercizio dello stesso. E la sentenza dovrebbe avere il massimo della pubblicità perché serva di ammonimento sia agli ‘aspiranti’ pedofili sia a quelli già in esercizio effettivo.
La seconda ragione è altrettanto importante: far conoscere ai fedeli che la Chiesa respinge ogni sospetto di complicità o anche di semplice omertà, sia penalmente sia, soprattutto, moralmente. Giustamente la Chiesa, in Italia, non si fa in alcun modo mallevadrice dei rei di pedofilia; responsabile, penalmente è il reo e solo il reo. I danni sono a carico dello stesso. Anzi, vedrei bene una Chiesa che si dichiara parte civile nell’eventuale processo, chiedendo al reo un risarcimento anche solo simbolico, per la perdita d’immagine che le viene davanti all’opinione pubblica e soprattutto davanti ai suoi fedeli. Messo in chiaro questo, forse sarebbe bello che, nel limite delle sue possibilità, la Chiesa stessa si facesse presente e partecipe nella solidarietà verso la vittima con una sua propria donazione; a precise condizioni, certamente, e sottraendosi con decisione a tutte le forme di sciacallaggio che non di rado emergono in casi come questi.
Ma ancora una volta, non è questo il coraggio di cui parlo nel titolo. Qual è dunque? È un coraggio immensamente più difficile da trovare, tanto difficile che so bene che la Chiesa non saprà trovarlo, almeno non per qualche generazione ancora: il coraggio di rivedere tutta la sua strategia di arruolamento dei suoi ministri; detto in termini meno brutali, finché non saprà rivedere tutta la sua teologia e la sua pastorale delle vocazioni ai ministeri ecclesiali.
In parole più dure: finché la Chiesa continuerà a condizionare l’accesso al ministero presbiterale (o sacerdotale, ma questo termine mi piace meno) alla scelta celibataria, questo pericolo sarà quasi impossibile da evitare. Non mi si accusi di ingenuità: so bene che i bambini non nascono sotto un cavolo, ma so anche bene che finché la Chiesa continuerà a volere solo preti celibi, essa sarà costretta a sceglierli tra i giovanissimi o al massimo fra i vedovi che hanno già provveduto a sistemare i figli. Ma accettare solo giovanissimi significa fare delle scommesse, e si sa bene che le scommesse si possono anche perdere. Se io punto forte al tavolo verde, o ho con me la cifra che punto, o devo sapere dove potrò trovarla. Diversamente rischio la rovina. La stessa cosa è col giovanissimo che diventa prete: può uscirne un santo e può uscirne uno dei mille preti pedofili di cui si è parlato in questi giorni. Se ti capita questo caso, devi aver pronta la via d’uscita. Ma ci hanno sempre insegnato che l’unico modo per non rischiare la rovina per gioco, è di star lontano dal tavolo verde. Mi piacerebbe che anche la Chiesa lo capisse.
L’unico punto nel quale mi dissocio da Mons. Fisichella è quando ha detto e ripetuto con forza che quei preti non sarebbero mai dovuti diventare preti. No, Monsignore, loro non sapevano che sarebbero diventati pedofili, come nessuno diventa prete sapendo che avrà una o più storie con le donne. È la vita che lo svelerà. Ciò che io chiedo alla Chiesa è di avere pazienza nell’ordinare preti: «non aver fretta d’imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui». Non sono parole mie, Monsignore, Lei le conosce bene: 1Tim 5,22. Certo questo significa rivedere molte cose nella Chiesa. Per far questo ci vuole coraggio. Molto coraggio. E moltissima fede. Coraggio, francamente non so quanto ne abbia. Quanto alla fede, forse si fida di più delle sue tradizioni. So bene che tutto questo non è per domani. Dio voglia che sia almeno per “dopodomani”.

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