Le due anime dell’unica chiesa


La settimana che oggi si conclude è stata dominata, per ciò che riguarda la Chiesa italiana, dal confronto a distanza dei due principali protagonisti della scena ecclesiastica italiana dell’ultimo ventennio: il Card. Carlo Maria Martini, Arcivescovo emerito di Milano, e il Card. Camillo Ruini, Presidente uscente della Conferenza Episcopale Italiana. Due stelle di prima grandezza sulla scena, non solo ecclesiastica, italiana.
Da sempre punti di riferimento per le diverse visioni e concezioni del modo di presenza della Chiesa e del fattore R (religione) nella politica e nella società civile dello Stato anche laico; tutt’e due a capo di una delle due capitali d’Italia: quella politica e religiosa, Roma, per Ruini; quella morale (termine alquanto abusato) e finanziaria, Milano, per Martini: sarebbe difficile immaginare una più marcata differenziazione tra i due modi di intendere e di esercitare il ruolo di guida e di governo nella e della Chiesa.
Quanto l’Arcivescovo di Milano ha saputo muoversi con scarpette di seta nella variegata e multiforme realtà culturale, politica e religiosa di Milano e d’Italia, tanto s’è dimostrato interventista deciso, puntuale e onnipresente il Vicario del Papa per la Diocesi di Roma. E questo in tutti i campi di confronto e di scontro tra la società laica e l’istituzione cattolica nei travagliati ultimi quindici anni del ‘secolo breve’ e nel primissimo scorcio del XXI.
Uomo di Giovanni Paolo II per eccellenza, il Card. Ruini è stato il fedele interprete della visione ‘eroica’ di una Chiesa sempre presente, attiva, interventista anche quando il rischio si fa grosso; convinto, come il suo grande Maggiore, che una Chiesa scarsamente visibile è destinata a rimanere anche scarsamente efficace, Ruini si è buttato a capofitto in quasi tutte le grandi querelles Chiesa-Stato, societàcivile-societàreligiosa, suscitando spesso veri vespai, polemiche anche dure, ricevendo roventi accuse di ingerenza negli affari di uno Stato che è laico e che laico vuol rimanere. Alternando risultati clamorosi a pesanti insuccessi, il ‘Cardinal sottile’ (così il Foglio di Giuliano Ferrara in un titolo a tutta pagina) ha saputo imporsi come ineludibile punto di riferimento per tutti, intellighenzia laica e pensiero cattolico d’avanguardia allo stesso modo.
Del tutto diversa la figura e la statura morale, religiosa e civile del Cardinale di Milano: uomo di studio e di cultura innanzitutto, esegeta di livello internazionale, spiritualmente e asceticamente legato alla grande scuola gesuitica da cui non ha mai preso pubblicamente le distanze nemmeno nei momenti più difficile dell’Ordine (negli anni di Padre Arrupe e della grande fuga dei gesuiti), Martini è sempre apparso il punto di riferimento per tutta quella Chiesa che si ritrovava nei modelli umili e modesti dei Giovanni XXIII, dei Dossetti, dei Giorgio La Pira, dei Giuseppe Lazzati, degli Alberto Monticone; di quella Chiesa cioè che ha dovuto subire una specie di eclisse dopo la morte di Paolo VI. Nessuna luna rimaneva visibile a chi si esponeva ai raggi incandescenti di Giovanni Paolo II, inebriandosene. Ruini era l’uomo giusto per il Papa Polacco. Martini ebbe la sublime virtù di accettare la penombra, mentre l’altro inanellava mandati su mandati a capo dell’episcopato italiano.
Ho sempre considerato con una certa malinconia il fatto che questo avvenisse. E questo non perché tifassi Martini, ma proprio come fatto in sé. Tre mandati consecutivi a Ruini potevano essere visti certo come il riconoscimento alla sua grande personalità, abilità, capacità di pastore e di governo; ma, da un altro punto di vista, si potevano leggere anche come una dichiarazione di sterilità della Chiesa italiana, che in venti anni non avrebbe saputo esprimere niente di nuovo (non diciamo di meglio) rispetto a Ruini. Con una Chiesa italiana, per di più, che rimaneva, e forse rimane l’unica sotto tutela papale, al punto d’essere l’unica Conferenza episcopale a vedersi negato il diritto di scegliersi per elezione il suo Presidente. Né le cose sembrano cambiate con Benedetto XVI. Chi sceglierà alla fine sarà ancora lui, sentito o no il parere e le proposte dei vescovi.
E proprio tra domenica e lunedì scorsi questa contrapposizione non dichiarata e non riconosciuta dagli stessi protagonisti si è riproposta con le due dichiarazioni in contemporanea sul caso Welby. Le due prese di posizione hanno un valore oggettivamente molto diverse, in quanto espresse in circostanze e con generi letterari completamente diversi.
La prima in ordine di tempo (domenica 21) è un articolo ‘di tale’ Carlo Maria Martini, senza altre specificazioni. Una voce privata dunque, un parere personale esposto su un quotidiano laico, senza mettere sulla bilancia nessun peso di carica o dignità del soggetto scrivente.
La seconda, una prolusione ufficiale d’apertura dei lavori del massimo organo di governo della Chiesa italiana, con una personale assunzione di responsabilità del suo Presidente, il quale si attribuisce apertamente la paternità e la responsabilità del rifiuto alla concessione dei funerali religiosi.
Quanto il testo di Martini è percorso da evidente commozione e partecipazione personale alla vicenda di Welby, tanto è argomentato e giuridicamente motivato il rifiuto del Cardinale Presidente. Ma è proprio su queste ragioni ostative che il lettore o ascoltatore trova la sua causa d’inciampo (la parola scandalo, etimologicamente, vale proprio ‘inciampo’): l’umanissimo Carlo Maria Martini concede tutta la sua comprensione e condivisione alla sofferta scelta di Welby. Al contrario il rigido custode dei dettati del diritto canonico, e fine politico che non vuol cedere a nessuno, nemmeno allo Stato, l’antico diritto, sempre rivendicato dalla Chiesa di Roma, di imporre la sua morale anche a chi cristiano non è o non è più, ha sentito invece il dovere di negare i funerali religiosi a chi ha semplicemente disobbedito al precetto della Chiesa. Naturalmente dirà anche, certo sinceramente, d’essere addolorato d’aver dovuto negarglieli, ma il dovere viene prima del sentimento. Nessun dubbio che l’abbia fatto in buona coscienza; allo stesso tempo nessun dubbio che ciò abbia costituito motivo d’inciampo (questo significa il greco ‘scandalo’) per molti cattolici in Italia. «Scandalum pusillorum» si dirà. Forse. Ma non è proprio questo che ha detto un giorno Gesù: guai a chi «avrà dato scandalo a uno di questi piccoli» (Mt 18,6)?

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