La stagione degli ‘angeli del fango’


Un nuovo intervento sulla messa in latino non l’avevo in programma. Ma un intervento sul tema di un commentatore autorevole e largamente seguito dai lettori del Corriere dell’Umbria come Roberto Grandis non può passare senza risposta. Ero appena tornato da un breve soggiorno nella Foresta Nera, la mia seconda carissima Heimat (parola non facilmente traducibile in italiano: che è, tutt’insieme, luogo d’origine e/o di elezione, la ‘tua casa’, il tuo nido, il tuo rifugio, la tua capanna, il tuo ritiro. Insomma il ‘tuo posto giusto’, dove il tuo spirito può finalmente ritrovarsi.
Così solo stamattina (sabato 21 luglio) ho potuto leggere il testo dell’articolo che l’ottimo Roberto aveva avuto la gentilezza di farmi pervenire prima che il suo articolo apparisse sulle pagine del giornale. Tra quelle righe mi aveva colpito la frase, del resto assai garbata «Su questo punto, (della messa in latino; la nota è mia) una volta tanto, sono in disaccordo con il mio amico Antonio Santantoni». Ne ho preso atto, riconoscendogliene tutto il diritto. Questo però non mi impediva di pensare che avesse del tutto torto. Tutto il mio articolo era una difesa del mio scritto contro le ‘critiche’ dell’amico.
Con tutta la diligenza possibile mi sforzavo di mettere in evidenza nel mio articolo come anch’io avessi vissuto la stessa storia del giovanissimo chierichetto torinese che si ‘pavoneggiava’ di sapere «di greco e di latino» come accadeva al grande Giosuè, il Vate dell’Italia risorgimentale all’apice della sua gloria accademica e poetica. Anch’io sapevo di latino (il greco è venuto solo più tardi), e anch’io mi facevo un imperativo di pronunciarlo con assoluta impeccabile esattezza. Più tardi, già prete, ma per la durata di solo un paio d’anni, le mie messe in latino erano molto apprezzate dai fedeli del mio paese natale, e io me ne sentivo molto appagato. Lasciato il Laterano, seminario e università, per cercare «più spirabil aere» teologiche, sono salito sull’Aventino, frequentandone il prestigioso Istituto liturgico. Lì ho capito che la liturgia era un’altra cosa.
Pian piano capivo che la liturgia è per gli uomini e non per Dio. È rivolta a Dio, certo, ma non è per lui. Come dice uno dei nuovi prefazi del nuovo Messale, Dio «non ha bisogno della nostra lode»; chi ha bisogno della lode che gli viene resa nel culto siamo proprio noi, suo popolo: infatti «i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ottengono a noi la grazia che ci salva» (prefazio comune IV).
Fu in quegli anni che il mito della lingua latina come lingua della liturgia cominciò a vacillare dentro di me. La Chiesa non aveva mai avuto una ‘lingua sacra’ per la liturgia, ma la sua ‘vocazione’ era di celebrare il suo culto nella lingua degli uomini. Così per esempio la Chiesa tardo-apostolica aveva abbandonato l’aramaico e l’ebraico in favore del greco. Ciò avvenne quando la comunità cristiana s’era ritrovata a parlare la koinè, la lingua greca non colta che quasi tutto l’impero romano del tempo era capace di comprendere. La stessa cosa era avvenuta nella chiesa romana alla fine del sec. IV: il greco non era più la lingua delle classi popolari di Roma e fu sostituito dal latino come principale lingua liturgica. La stessa cosa ci saremmo aspettati di vedere tra il 1000 e il 1200 della nostra era, quando le lingue volgari presero dovunque il sopravvento in Europa. Ma nel frattempo la temperie culturale nella Chiesa era profondamente evoluta. La Chiesa di Gregorio VII prima, di Innocenzo III all’età di Francesco d’Assisi e di Bonifacio VIII al tempo di Dante era una Chiesa tutta tesa all’affermazione del primato spirituale e politico del vescovo di Roma, successore di Pietro sul suo ‘trono’, detentore primario dei due poteri, delle chiavi e della spada. E, con il linguaggio dei simboli, i simboli del linguaggio: incoronazione invece di elevazione, intronizzazione invece di insediamento; ‘regno’ (corona) e addirittura ‘triregno’ invece di mitra per il copricapo del papa.
L’importanza ‘politica’ dell’unità linguistica per la Chiesa appariva ormai chiarissima ai curiali romani. “Date a Roma ciò che è di Roma”, si potrebbe dire parafrasando Gesù. È comprensibile allora la gelosia con cui la Curia di Roma ha difeso, di lì in avanti, sia l’unità liturgica sia l’unità linguistica della Chiesa latina. Il colpo decisivo lo aveva dato nell’XI secolo Gregorio VII, quando aveva provveduto a sopprimere tutte le liturgie latine non romane. Il latino rimase la lingua dei dotti almeno fino al sec.XVII. Quanto alla lingua della filosofia e della teologia, beh!, io ho dato tutti i miei esami di filosofia e teologia parlando in latino. Ed era già l’età del Vaticano II.
La scelta del latino, allora, come una tentazione ancora nell’ordine di una strategia di potere? Personalmente non l’escluderei. In fondo ogni scisma, oltre che una perdita d’unità, è anche una perdita di potere. E tale certamente è stato, per Roma, il microscisma di Lefebvre. La messa in latino come un tentativo di ricomposizione della compagine ecclesiale sotto il potere di Roma: mi rendo conto che a qualcuno questo linguaggio potrà apparire dissacrante. Senza imporlo a nessuno, invito tutti a rifletterci su.
Un’ultima cosa gli facevo notare: l’unica ventata di primavera dell’età moderna la Chiesa l’ha conosciuta dopo il Sessantotto: le chiese piene di giovani: capelloni, minigonne, chitarre, jeans, tutti seduti in terra sul presbiterio o sui gradini dell’altare: cantavano, leggevano, dettavano le preghiere dei fedeli, intervenivano nelle omelie partecipate. È durato poco, purtroppo. Improvvisazione? Può darsi. Però che fervore, che entusiasmo, che slancio! Poi qualcuno lanciò un grido: fuori i barbari! E quei giovani riguadagnarono prima le panche, poi sempre più indietro fino alla porta, fino all’uscita. Non li abbiamo più visti. La primavera era finita. Era già tornato l’autunno e le foglie erano cadute. Nelle chiese era tornato l’ordine. Gli “angeli del fango” (1966) avevano già lasciato Firenze. E io purtroppo non c’ero andato. Ero rimasto a Roma a studiare. E a pregare in latino.
Ho inviato a Roberto Grandis, in anteprima questo pezzo perché lo riguardava. E lui ha voluto chiamarmi per dirmi che io l’avevo frainteso. «Figurarsi se io rimpiango il latino!». Lui voleva usare l’ironia per dire le stesse cose che dicevo io. Gli ho risposto: allora cambio tutto. Lui mi ha detto: «No se non mi hai capito tu, allora può succedere che anche altri mi abbiano frainteso. Ti prego di dirlo, anzi». Ho obbedito ben volentieri.

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