Il ruolo scomodo della profezia


L’articolo che il dott. Gianni Pasquarelli, già Direttore generale della RAI, ha avuto la cortesia di dedicarmi venerdì scorso su questo giornale, merita esso stesso una risposta. Intanto il più vivo apprezzamento per ciò che egli dice sul mio modo di scrivere – e, di riflesso su ciò che scrivo – e del suo sforzo di risalire dallo scritto alla personalità dell’autore.
Chi mi segue da qualche anno sa certamente che io sono un prete, perché nel passato in qualche rara occasione, o per dar più forza a un concetto o per sottolineare la portata di una mia presa di distanza da certe opinioni diffuse o dichiarazioni autorevoli, non avevo esitato a dirmi tale. Mi era stato fatto notare che questo dichiararmi poteva risultare ambiguo agli occhi del lettore: guardate, non ho paura di mostrarmi né intendo nascondermi; ma anche: guardate io sono un prete, so quello che dico, quindi pretendo attenzione. Questo consiglio mi venne proprio dal giornale e mi sono attenuto al consiglio. Oggi credo di poter dire che forse chi me lo ha dato ha avuto ragione, se il dott. Pasquarelli ha amato per qualche tempo cimentarsi in questo gioco. Un gioco che deve aver appassionato anche qualcun altro, stando alle e-mail che ho sempre ricevuto, molte elogiative, altre decisamente oltraggiose.
Quando scrivo, non faccio mai riferimento al fatto di essere un prete. Mi basta che si capisca chiaramente che il sono un cattolico, anzi, meglio, un cristiano. Lo scrivevo molti anni fa in un piccolissimo libro, subito fatto scomparire dal commercio e che segnò la brusca e immediata interruzione d’una ‘carriera’ che tutti prevedevano, allora, folgorante. Un libretto da leggere in un paio d’ore, che piacque molto a P.Ernesto Calducci, ma che quasi nessuno ha letto, e di cui non mi sono mai pentito d’averlo scritto: «Al cristiano di domani basterà rispondere, a chi vorrà conoscere la sua fede e la sua confessione: sono cristiano. Il resto: cattolico, luterano, evangelico, ortodosso, anglicano, ecc… viene dall’uomo. O forse dal Maligno» (Sui sentieri della speranza, 1978).
La libertà e l’onestà del pensiero sono sempre stati il solo assoluto della mia modesta vita intellettuale. La fedeltà a questa scelta ha avuto dei costi molto alti. Avevo 34 anni quando dovetti pagare il primo conto: il prezzo da pagare fu la rinuncia alla cattedra di storia della chiesa antica all’università del Laterano, offertami alla condizione di non scrivere e non dire mai nulla contro la “linea ufficiale dell’università” (sic!). Risposi che non capivo. Qualcosa contro il dogma l’avrei anche capito, ma può avere un’università una linea ufficiale? Non è l’università il regno della ricerca libera. Tutto era già stato cocordato. Ma arrivò una messa in guardia: Santantoni è un uomo libero! (testuale). Non se ne fece più nulla. E rimasi a Casalina.
Ma la libertà non è il solo assoluto della mia vita intellettuale. L’altro è la fede. Ma la mia fede – questo può tornare utile a ognuno dei miei lettori quando legge un mio scritto – non fa mai a meno della sua libertà di giudizio. Ciò vale soprattutto nella sfera umana della morale, della disciplina canonica, della prassi liturgica, ma interessa anche il dominio proprio della dottrina teologica: anche in questo campo gli spazi della libertà dove si muovono i puledri e le gazzelle sono assai più vasti del piccolo hortus conclusus del dogma. Da esso esco e ad esso ritorno ogni volta che tento un’immersione nel libero mondo del pensiero.
Nato e cresciuto sulla linea di confine dei due mondi, del giardino mirabilmente coltivato e curato e della prateria dove si incontra di tutto – il bello e il brutto, il buono e il cattivo, la vita e la morte, l’amico e il nemico, l’amore e l’odio – non so risolvermi a lasciare nessuno dei due.
Se ora qualcuno mi chiedesse: ma tu credi davvero che esista un Dio? ne sei assolutamente certo?, puoi dire di saperlo come cosa sicura?, risponderei: saperlo per certo, no. Se lo sapessi per certo, di una certezza sperimentale o scientifica, non potrei più dire Io credo. Chi sa che una cosa esiste non ‘crede’: sa che quella cosa c’è; e basta.
Se incalzasse: ma ne sei assolutamente certo? A questo punto io risponderei: io lo credo. E sottolineerei che se dico ‘credo’ è solo perché non lo so di certezza fisica, matematica, scientifica. Io credo: è già un atto di fede.
E se colui insistesse: un’opinione dunque? Una di quelle di cui si dice che una vale l’altra? Risponderei no, non di una di quelle: nella mia fede ci sono dentro tutto con tutto il mio peso fisico e morale, corporeo e intellettuale, materiale e spirituale. La mia fede fa parte di me, è parte di me, è tutto me stesso. Con tutti i miei problemi, le mie difficoltà, i miei insuccessi, i miei peccati che non sono pochi. La mia fede: al tempo stesso faro inestinguibile e nebbia impenetrabile nel mio viaggio verso il porto che mi son dato per meta. Di questa fede scorgo grato tutta la luce e scruto ansioso ogni gocciolina d’acqua sospesa: l’ansia e la speranza avanzano appaiate sulla prua e io le seguo, partecipe. Così accade che la mia fede sia per me al tempo stesso una certezza e un problema e che il mio grido sia sempre quello del padre dell’indemoniato: «Io credo Signore, ma tu aiuta la mia incredulità» (Mc9,24).
E mentre la difficile traversata continua, mi sono anche convinto che solo questa potrà essere la via per una nuova evangelizzazione: un’evangelizzazione che non faccia più ricorso a formule vecchie e ormai linguisticamente e realisticamente improponibili ai nostri contemporanei: uomini d’un altro tempo, d’un’altra cultura, di altri bisogni, angosciati da nuove paure, da nuovi problemi, chiuso com’è in un pianeta che per la prima volta nella sua storia scopre di non aver più bisogno del “crescete e moltiplicatevi” perché ormai non sa più dove mettere i nuovi arrivati, visto che quelli che sono arrivati prima hanno sempre meno voglia di lasciar libero il posto a quelli che arrivano dopo; e il mondo si fa stretto, e i mari si alzano di livello e le terre si ritirano e le piantagioni cedono spazi al deserto, e i popoli hanno ripreso a migrare sfondando frontiere e riaprendo ferite, e le nuove piaghe rischiano di suppurare fino alla cancrena e magari all’amputazione.
Di fronte a questa nuova realtà la Chiesa è chiamata a mostrare tutta la sua potenza profetica e tutta la sua misericordia. Ai miei fratelli uomini non piace sentirsi dire continuamente: non si può. A loro si può mostrare solo il meglio, con la speranza che i loro occhi finiranno col vederlo e col preferirlo. Tra la steppa brulla o le terre invase dalle erbe selvatiche forse sarà la bellezza dell’«hortus conclusus» a prevalere e forse preferiranno entrare in questo e abbandonare le prime.
Delle ben appropriate e molto garbate osservazioni del dott. Pasquarelli ne ritengo una: «Mi chiedo allora se l’irrigidimento in campo cattolico non possa essere letto come una presa d’atto di questa drammatica realtà, e se non possa essere vissuto e concepito come un tentativo di ri-cristianizzazione dell’Europa cattolica o protestante che sia». Sì, certo è così che va letto, vissuto e concepito l’irrigidimento. Non è sul senso che io dissento, è sull’efficacia che non concordo. Mi si creda sulla parola: in questi ultimi mesi ho sentito molti cattolici, praticanti, osservanti, devoti perfino, lamentarsi e dire: non se ne può più, basta, per favore! Ci facciamo male da soli.
Scrivendo queste cose non ho goduto. Le ho scritte come assolvendo un dovere. Avverto tutto il peso di cantare fuori del coro e so quanto sia rischioso correre da solo la sicuramente perdente «avventura d’un povero cristiano». Ma non vorrei sentirmi dire un giorno: perché hai taciuto? (cfr. Ez 33,6-7).