Il cristiano e il testamento biologico


Stamattina, venerdì, ho potuto seguire per radio una parte d’un confronto di idee sul testamento biologico. Trovarsi in macchina qualche volta serve. Hai tempo per seguire cose che diversamente ben difficilmente potresti ascoltare. Alcuni dati erano notevoli: i favorevoli a una legge che regolasse e garantisse il testamento biologico sembrano essere una stragrande maggioranza, come del resto in molti altri paesi dell’ Occidente. Sta affermandosi l’idea che a detenere il diritto di conformare la propria uscita dalla scena del mondo sia lo stesso che su quella scena ha già interpretato una parte che poteva essere solo sua. Azione e uscita di scena devono risultare coerenti. Tale coerenza deve essere garantita.
Il problema non è certo di oggi, ma è dei nostri tempi la consapevolezza chiara e tranquilla che l’uomo ha diritto di “vivere anche la sua morte”, di darle cioè un corso e una forma che deve rispondere innanzitutto alla sua coscienza, alla sua concezione della vita e della morte, di imprimerle cioè il proprio sigillo, quello che potrà permettere a chi vi assiste o ne verrà a conoscenza, di capire come io mi sono rapportato alla morte: con quale lucidità, con quale dignità, con quale ‘superiorità’ o signorìa l’ho fronteggiata, affrontata e, appunto ‘vissuta’.
Viene in mente un famoso pensiero di Blaise Pascal: “l’uomo è solo una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. … Un vapore, una goccia d’acqua basta per ucciderlo. Ma quando l’universo l’avrà schiacciato, l’uomo sarà ancora più grande di chi lo uccide, perché egli sa di morire; ma del vantaggio che l’universo ha su di lui, l’universo non ne sa nulla” (Pensées, 264). Ed è un grande vantaggio. Che è al tempo stesso la sua maledizione. Perché certo non è facile sostenere questa consapevolezza. Attaccati come siamo alla vita e a tutto ciò che le appartiene, sapere che dovremo ineluttabilmente lasciarla di qui a poco, può gettare (e di fatto getta) nella costernazione e spesso nella disperazione, molti di quelli che se lo sentono dire.
Nessuno più del medico sa cosa vuol dire rivelare al malato che per lui ormai non c’è più speranza. Allora si cercano espressioni più gentili, più ‘soft’. Per esempio nessuno ti dirà più che la tua malattia è ‘grave’; oggi ti diranno che è ‘importante’. Non è che cambi molto, ma non ti ammazza in anticipo. La verità è che la nostra civiltà ha un rapporto schizofrenico con la morte: bandita dai nostri discorsi e dai nostri pensieri, l’incontriamo a ogni angolo della strada: in auto, sotto un cavalcavia o sulle strade del sabato sera; al mare, sfidando il mare mosso; in montagna, affrontando imprese rischiose trascurando i dati della meteorologia; abusando di alcool di tabacco e di venere senza precauzioni di sorta. E poi ci sono gli sport estremi, affrontati a volte da gente che di estremo ha solo l’incoscienza. E poi tutti i veleni che spargiamo nel mondo, negli alimenti, nell’aria, nell’acqua. E poi il culto della ‘morte bella’ ambita dai kamikaze del nuovo terrorismo come la suprema forma del martire-eroe; e le pulizie etniche e le stragi programmate. E si uccide anche per pochi spiccioli, o dopo aver goduto del tuo sesso rubato.
Ma grazie a Dio, c’è anche, e ancora, la vecchia cara «sora nostra morte corporale» di Francesco d’Assisi, quella «da la quale nullo homo vivente pò skappare». E ci basta questa certezza per sentirci più tranquilli. Sì, tranquilli; perché la morte, a saperla guardare e prenderla per il giusto verso, non è poi quella nemica che molti di noi s’immaginano. Pensiamo un po’ se non ci fosse questa cara grande provvidenziale sorella! Intanto probabilmente non ci saremmo neanche noi. Se l’uomo decidesse un giorno di non togliere più il disturbo, di quanti piani dovrebbe essere fatto questo piccolo mondo che ci ospita? Dove ci avrebbero messo i nostri predecessori, e dove li metteremmo noi i nostri successori? E se per pochi uomini privilegiati (un miliardo, forse; certo non due) il mondo potrebbe anche apparire un inesauribile fonte di piaceri, per gli altri 4- 5 miliardi di poveri che esistono al mondo, provate a condannarli a vivere a un ergastolo eterno di fame e di sporcizia, nelle capanne della savana o nelle baracche delle favelas, con le malattie che il mondo ricco regala loro con i suoi rifiuti radioattivi e tossici, con le medicine inavvicinabili per chi un dollaro lo vede sì e no a natale ma che intanto ha la lebbra, o l’Aids, o il beri-beri e via dicendo.
Lo dico con piena consapevolezza e convinzione: nessuno dovrà defraudarmi della mia morte: è un mio diritto ed è una mia speranza, a cui tengo infinitamente, assai più che alla mia stessa vita. Sarà la mia morte che darà un senso a tutto ciò che l’avrà preceduta. Questo pensiero non mi sgomenta: ci convivo da sempre. Anche quando, 3-4 anni fa, la morte l’ho avuta davvero vicina.
Ma proprio perché la mia morte mi è tanto cara e preziosa, io non vorrei mai che a gestirla fossero gli altri. Purtroppo so che potrà avvenire anche questo: un ictus, un coma irreversibile, l’alzheimer… Ma al di fuori di questi casi, vorrò gestirla io. Quando ho dovuto cominciare a pensare a una morte possibile, fin dalla prima visita all’epatologo, ho messo subito in chiaro: “la verità; tutta; subito”. E devo dire che mi hanno accontentato. Ora che il pericolo sembra passato, continuo a non illudermi: so che si tratta solo d’un rinvio, che in quel tunnel che per ora ho evitato, un giorno o l’altro dovrò pure entrare, e quando ci sarò dentro davvero, potrò uscire solo dall’altra parte del tunnel. Ma vorrei… anzi, vorrò che mi si aiuti solo a morire serenamente e dignitosamente, senza impormi un solo giorno di vita in più, non importa se di pura vegetazione o di beata incoscienza (coma) o di gratuito dolore. Vorrei, anzi vorrò (se potrò o se altri lo vorrà esigere per me) che si faccia il possibile per garantire la guarigione, ma, quando questa risulterà (perché una volta dovrà pur essere) assolutamente impossibile da raggiungere, allora mi si lascino tirare (o mi si tirino) i remi in barca, e questa sia lasciata in balìa dell’amica corrente che saprà bene lei dove condurmi. L’unica carità che chiederò (o che altri dovrà chiedere per me) è di contenere nei limiti del possibile il dolore, perché la mente sia più serena (compatibilmente con gli effetti della sedazione) e dunque più disposta alla riflessione sulla mia vita e alla preghiera.
Più che di molte cure inutili, vorrei che qualcuno che mi voglia un po’ di bene, ‘discretamente’ mi stesse vicino, pregando con voce anch’essa ‘discreta’, ma da me percepibile, come io fatto con Mamma, come ho fatto con Laura, come non ho potuto fare con Peppina e Carletto che ancora me ne dolgo. A chi mi assisterà, chiederò con Ermengarda: «Moriamo in pace/ Parlatemi di Dio: sento ch’ Ei giunge» (A. Manzoni, Adelchi, scena I). Sulla mite Ermengarda scendeva la pace eterna.
P.S. Potrebbe bastare questo come mio testamento biologico?

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