Grazie Eminenza


La settimana non si era aperta molto bene: presentazione della Esortazione apostolica postsinodale con i ribaditi no ai DICO, alla Comunione sacramentale per i divorziati risposati, a una diversa disciplina che consentisse la coesistenza di un clero coniugato a fianco di quello celibatario.
Nessuno si aspettava rivolgimenti spettacolari, ma insomma, finché non vedi nero su bianco, puoi ancora sperare che almeno qualcosa di nuovo si possa trovare. Così non è stato.
Poi per la verità qualcosa di diverso s’è visto: una dichiarazione del presidente della CEI Mons. Bagnasco, che mostrava di averne abbastanza di contrapposizioni frontali tra fede e ragione, pensiero scientifico e pensiero religioso, scontri fra schieramenti politici contrapposti nei quali non sai mai qual è il ruolo giocato dalla buona fede e il pregiudizio pro o anti. «Guerre sante senza senso» le ha Chiamate il Presidente della Cei, facendo eco ad altre parole dello stesso senso dette solo pochi giorni prima.
Poi, martedì le parole dell’Arcivescovo di Milano, da Nazaret dove si trova, con 1300 milanesi, per portare al Cardinale Carlo Maria Martini gli auguri della chiesa ambrosiana per il suo 80° compleanno. «I contenuti del Vangelo sono quelli, e sui principi non si possono fare sconti. Ma l’importante è lo stile, il modo di proporre questi contenuti anche alle persone che sono lontane dalla Chiesa. L’importante è lo sforzo di andare avanti e riprendere il dialogo, giorno dopo giorno». Il successore di Martini sulla cattedra di Ambrogio, dopo aver detto che sui principi non si può transigere, chiarisce meglio il suo pensiero: «L’importante non sono tanto le parole dette. Anche queste vanno pronunciate perché si verrebbe meno alla fedeltà ministeriale. Ma ciò che conta è lo sforzo che tutti insieme cerchiamo di fare un passo in avanti, vivendo, magari a fatica, ma con convinzione, con capacità di riprendere il dialogo, giorno dopo giorno e di vivere la coerenza». (La Repubblica, 14 marzo). E aveva postillato: «E se non ci pensa qualcuno, ci penserà il Signore».
Solo due giorni dopo tutta la stampa ha concentrato la sua attenzione sulle parole che lo stesso Carlo Maria Martini ha detto, quasi in ideale sintonia col suo successore parlando agli stessi suoi ex diocesani: «È un grande compito quello che dobbiamo portare avanti, per il quale io prego nella mia intercessione quotidiana: che ci sia dato, anche come chiesa italiana, di dire quello che la gente capisce: non un comando dall’alto che bisogna accettare perché è lì, viene ordinato; ma come qualcosa che ha una ragione, un senso, che dice qualcosa a qualcuno…». È un pensiero che urge nella cura pastorale dell’ex arcivescovo: «Bisogna farsi comprendere ascoltando anzi tutto la gente, le loro necessità, problemi, sofferenze, lasciando che rimbalzino nel cuore e poi che risuonino in ciò che diciamo, così che le nostre parole non cadano come dall’alto, da una teoria, ma siano prese da quello che la gente sente e vive, la verità dell’esperienza, e portino la luce del Vangelo. «Parole che tutti possano intendere: anche chi non pratica una religione, o chi ne ha un’altra, perché sono il primo passo». C’è «un livello di verità delle parole, che vale per tutti, credenti e non, e in cui tutti si sentono coinvolti e parte di una responsabilità comune».
Tre testimonianze diverse, diverse anche di peso e di valore, perché dette da persone che vivono e rappresentano situazioni diverse: uno di loro, Martini, come uno che si sa già «in lista d’attesa», che sa che «la chiamata è vicina», ma che dalla sua posizione, che è anche di privilegio perché libera ormai da urgenze e responsabilità dirette, può guardare le cose con occhio più libero, come uno che ha imparato che «se tante cose ci mancano ancora», sono tante anche «le cose belle, perché la nostra fede, in una situazione così secolarizzata, è già un miracolo, un dono di Dio. Bisogna partire dalle cose belle, magari poche, e ampliare. Invece l’elenco delle cose che mancano è senza fine. E tutti i piani pastorali che partono dalla lista delle lacune sono destinati a dare frustrazione, anziché speranza».
Oggi (sabato 17) si discute, sugli organi di stampa, se il discorso del Cardinale Martini sia un’ulteriore manifestazione di quel ruolo di cripto-antipapa che per tanti anni qualcuno gli ha ritagliato addosso, se sia espressione di quel ruolo di testimone d’una Chiesa povera e mite che egli sembra essersi scelto. C’è da scommettere che anche nella Chiesa militante, cioè impegnata, i due ‘schieramenti’ sono in qualche modo e misura rappresentati. Chi, ogni volta che parla il Card. Martini, arriccia il naso, perché lo vede come il punto di riferimento di un certo cristianesimo e di un modo di essere Chiesa che negli ultimi tre decenni è stato costantemente messo in minoranza e in secondo piano; chi invece lo vede come la voce libera e profetica d’una Chiesa che oggi è certo minoritaria in Italia, ma non per questo sconfitta e superata dalla storia. Poco più di un secolo fa Rosmini fu messo all’indice, e ora sarà messo sugli altari. Io, lo confesso, sto dalla seconda parte. Tra gli sconfitti di oggi. E amo pensare che nella grandezza morale di Martini, tutti i minoritari di oggi, possono trovare la fiducia di non essere minoranza nel cuore di Dio.

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