È l’amore di Cristo la fiamma che spegne l’inferno


Nella recentissima seconda enciclica di Benedetto XVI ci sono due paginette (p.91-93, n.47) che non dovrebbero sfuggire a un’attenta lettura. Qui è riprodotto quasi nella sua interezza. Lo si legga con attenzione prima di andare avanti con la lettura.

Parole di speranza di universale salvezza
«Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi… Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa ‘come attraverso il fuoco’. È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio… la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi…
Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia… Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura… La grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro ‘avvocato’
» (Benedetto XVI, Salvati dalla speranza).

Di che sta parlando il papa? Di quale giudizio sta trattando? Niente di meno che del giudizio ‘finale’, ma non di quello che noi siamo soliti chiamare anche ‘universale’, quello che vediamo rappresentato sulle pareti di fondo di molte chiese del basso medioevo e fino al Rinascimento e di cui l’esempio certo più celebre è certamente quello di Michelangelo nella Cappella Sistina. Per intenderci meglio: non di quello che secondo il comune modo di pensare dovrebbe costituire l’ultimo atto, conclusivo e definitivo e non più modificabile, della storia umana, con il quale avrà inizio quella che siamo soliti chiamare ‘l’eternità’; quello di cui parlerebbe Matteo nella parabola del giudizio finale (Mt 25,31-46), una cui anticipazione sarebbe da vedere nella parabola del ‘ricco epulone’(Lc 16,19-31). A proposito di quest’ultima, il papa fa una precisazione importante: «Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora».
Forse è arrivato il momento di parlare più chiaro. Il papa sta parlando qui del problema più angoscioso e imbarazzante della fede cristiana: il problema dell’inferno e della dannazione eterna. Una verità di fede (dogma) che per molti cristiani praticanti e per moltissimi di quelli che hanno voltato le spalle alla fede e alla pratica cristiana rappresenta un vero ‘scandalo’. Come può, si chiedono questi ultimi, attribuire a un Dio che si fa definire “amore” (Gv 4,8.16) la crudeltà, la ferocia, l’efferatezza di inviare un suo figlio ‘all’inferno’, cioè a una pena che assomma in sé tutte le pene possibili, e queste eterne! Cioè per “sempre”! Di un Dio così la cosa migliore che si possa pensare è che non esista, augurargli di non esistere, perché se esistesse davvero potrebbe meritare solo il nostro odio. E come? Se noi «che siamo cattivi» (Mt 12,34) siamo arrivati, col progredire della civiltà, a concepire e a mettere in atto l’abolizione della pena di morte; se si tende perfino ad abolire l’ergastolo sostituendo all’idea di pena punitiva o vendicativa quella di pena rieducativi, per il recupero del reo o del criminale che sia; se noi, creature imperfette e dalle ascendenze belluine, pur mantenendo alla pena il suo valore di dissuasione e di prevenzione, abbiamo sviluppato criteri che ci consentono di attribuire alla giustizia un valore più medicinale che vendicativo, come potremmo noi continuare a immaginare il “Dio che è amore” (lo sottolineava il papa nella sua prima enciclica) come il feroce, odiosissimo carnefice predicato dai grandi oratori sacri del Seicento (uno per tutti, il più grande, Paolo Segneri): il «Deus ridens», il Dio che ride e si diverte a contemplare dal cielo i tormenti dei dannati immersi nel fuoco eterno e straziati in tutti i modi dai diavoli torturatori, fra gli applausi e le risate di compiacimento dei beati benignamente ammessi alla stessa esilarante visione dei reprobi?
Il papa dice che questa idea è di «alcuni teologi recenti». Non li cita, ma non li riprova. Dunque è probabile che lui stesso si ritrovi in quel pensiero. Dunque anche il papa ritiene che se di fuoco si deve parlare, si deve pensare a Cristo che, nel momento del giudizio su ognuno di noi, «ci risana» mediante una trasformazione certamente dolorosa «come attraverso il fuoco». Certo il papa non si spinge fino a negare l’inferno, ma sembra ritenere che non debba essere molto facile cadervi, proprio a causa di quell’ultima estrema offerta di salvezza che è contenuta nell’incontro col Giudice, anche se «alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (45, p.89). Ma «secondo le nostre esperienze, né l’uno né l’altro è il caso normale dell’esistenza umana. Nella gran parte degli uomini — così possiamo supporre — rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima». Come dire: a Dio basterà trovare anche solo un tenue barlume di bene nell’uomo; quella scintilla di bene gli basterà per salvarlo dal grande fuoco dell’inferno. Viene in mente la “lagrimetta” che salvò dall’inferno l’anima di Bonconte da Montefeltro (Dante, Il Purgatorio, V, 107).
Certo, in linea di principio il papa non esclude che qualcuno possa anche resistere fino all’ultimo alla grazia di Dio, ma poi fa presente che «Paolo dice dell’esistenza cristiana che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte» (p.90). Personalmente mi conforta pensare che il papa si mostra assai aperto alla confidenza e alla speranza. Del resto già in un’altra occasione (ebbi modo di occuparmene circa un anno fa), Benedetto XVI sembrò dar ragione a Hans Urs von Baltasar quando diceva che l’inferno esiste certamente, ma che probabilmente è vuoto. Lo spero anch’io. Il Deus ridens di Segneri non mi è mai piaciuto.

Se Dio è carità
detesterà
l’inferno
assai più di noi

E se l’inferno fosse vuoto?
È forse questo il più bel messaggio
dell’enciclica papale
Salvati dalla speranza

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