Cambiano le parole, ma non cambia la fede


L’argomento non è più attualissimo (sono passati una ventina di giorni dall’annuncio) ma qualcuno mi domanda ancora perché non ci spendo una parola: come si fa a cambiare il Padre nostro e l’Ave Maria dopo che per tanti secoli s’è pregato così?
Tornano alla mente, a noi che abbiamo qualche anno di grigio sulla testa, le immagini care delle mamme e delle nonne, le sere attorno al focolare e forse, per chi è più avanti ancora negli anni, le lunghe veglie nelle stalle, le ‘ciacole’ con i vicini, tra una parola e l’altra, una maldicenza e l’altra, una risata e l’altra, una lacrima e l’altra. Poi, alla fine, prima di rimettere tutto nel grembiule che cingeva i fianchi delle donne per risalire in casa o per tornare alle case vicine, si chiudeva con il rosario: un’avemaria dopo l’altra, cinquanta volte: tante, poche, suvvìa che vuoi che siano cinquanta avemarie! intanto che si continua a filare, a cucire, a tirar d’uncinetto, a sgranare fagioli, piselli, girasoli, pannocchie di granturco.
Dio, che noia! diremmo noi. Ma allora non era così: c’era «la percezione del rosario come una sorta di spazio aperto, di ‘una stanza tutta per sé’, l’unica offerta alle nostre nonne incolte, che grazie alla sua recita interrompevano la routine del lavoro per raccogliersi ‘insieme’. Il tempo del rosario insomma, come tempo di sosta, come tempo riservato, come tempo proprio che nessuno può contestare». A scrivere così è Cettina Militello, nota teologa italiana, che aggiunge: «In un mondo avverso alle donne (e anche agli uomini), in uno stile di vita che vede prevaricante la fatica, è la ripetizione ritmata delle ‘ave’, è la meditazione dei misteri a costituire uno spazio sospeso, privilegiato, nel quale la fatica si stempera, il lavoro si allontana. Resta questo confidente parlare alla Madre del Signore meditando i misteri del Signore». E quelli della stessa Madre del Signore, di Maria, aggiungo io: e cioè della donna, di cui quello spazio era come il sacrario: e mentre i bambini dormivano e gli uomini ‘da lavoro’ affilavano le falci o ‘spellavano’ i vinchi o riparavano le scarpe e i più vecchi sonnecchiavano e i più giovani trovavano altri modi per passare il tempo, la donna si sentiva protagonista e sovrana. Tempi lontani che la televisione ha seppellito per sempre come fatto sociale.
Anche il padrenostro rientrava nel rosario (cinque volte) e anche il padrenostro ora si vorrebbe cambiare. Che ne è allora della nostra fede, se ogni 30-40 anni s’alza qualcuno e cambia qualcosa della nostra religione? Don Antonio, ci dica che ne pensa lei, mi hanno chiesto al giornale. Questa è la mia risposta.
Innanzitutto tranquilli: non cambia né la preghiera né la fede. Nella preghiera resta tutto come prima: continueremo a dire «Ave Maria» e, almeno per ora, «non ci indurre in tentazione». A cambiare, per ora è solo la traduzione dei testi biblici che verranno letti nella liturgia a partire da domenica 2 dicembre, prima domenica d’avvento. E neppure in tutte le chiese, ma solo in quelle che nel frattempo si saranno procurate i nuovi lezionari domenicali e festivi (3 volumi, per i tre cicli annuali A B C). E potete star certi che tra i fedeli saranno pochi quelli che si accorgeranno di qualche cosa. Ma ora veniamo al merito.
Se per l’avemaria sono del tutto favorevole al mantenimento della vecchia forma nella preghiera – mi auguro di poterla recitare così anche in punto di morte, come l’ho appresa dalla mamma nell’infanzia e come l’ho recitata per tutta la vita –, per il padrenostro devo riconoscere che il discorso è più delicato e più complesso, e ‘forse’ ci si può augurare che la nuova traduzione entri, prima o poi, anche nella preghiera liturgica e popolare.
Sì, l’avemaria resti pure com’è: ‘Ave’ – saluto latino che augura letizia, fortuna, successo, buona salute, serenità – è la traduzione latina del greco ‘kaire’ (rallegrati), resa definitiva dalla ‘Vulgata’ di San Gerolamo (a cavallo fra il IV e il V secolo). Una parola che l’uso e la devozione cristiana ha reso un’icona in sé stessa: non si può vedere un’annunciazione senza sentirsi nascere in bocca e nel cuore quella parola ‘Ave’. Ave non vuol dire solo ’rallegrati’: quella parola, per ciascuno di noi vuol dire anche tutta la fede, l’amore e la fiducia che quasi mille anni di preghiera cristiana (la prima testimonianza di una forma ‘pregata’ del saluto angelico sembra risalire ‘solo’ alla metà dell’XI secolo) hanno potuto sedimentare in quella parola. Chi ha appena qualche memoria dei suoi studi liceali, ricorderà probabilmente i luminosi versi del Carducci «Ave Maria! Quando su l’aure corre / l’umil saluto, i piccioli mortali / scovrono il capo, curvano la fronte / Dante ed Aroldo» (La Chiesa di Polenta). E il grande Vate dell’Italia repubblicana non era certo un baciapile.
Diverso è il caso del Padre nostro. Qui non c’è tanto un ‘vizio’ di traduzione da correggere (non ‘ci indurre in tentazione’ è un modo perfettamente corretto di tradurre il greco kai me heisenéŋkes), ma piuttosto una durezza concettuale da ammorbidire. Perché quel “non ci indurre” è concettualmente assai duro da accettare. Lo fa notare Carlo Maria Martini, cardinale e autorevolissimo esegeta: «La richiesta è un po’ scandalosa nella sua formulazione. La Chiesa lotta da secoli contro l’apparente scandalosità di tale formula, e ha cercato costantemente di ridirla, di riesprimerla. Sant’ Ambrogio per esempio traduceva: ‘non permettere che cadiamo nella tentazione’. Il ‘non ci indurre’, infatti, è una parola molto dura, perché sembra che Dio stesso tenti al male. Sappiamo che la Conferenza Episcopale Italiana ha fatto di tutto per cambiarla nella nuova edizione della Bibbia, sostituendola con ‘non abbandonarci nella tentazione’, per edulcorare un po’ l’espressione». Così scriveva già qualche tempo fa il cardinale.
Dunque non di correzione di traduzione, si tratta, ma di bisogno di ‘addolcire’ lo ‘scandaloso’ testo greco; come dire: Gesù ha detto così, ma voi dovete capire in quest’altro modo; e perché non abbiate a pensare che sia Dio a tentarvi, noi vi diremo lo stesso concetto con altre parole. E che questo sia il modo corretto di intendere le parole di Gesù ce lo fa capire con forza già l’autore della lettera di Giacomo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand`è consumato, produce la morte. Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi» (Gc 1,13,16). Dio non ruba mai a Satana il suo mestiere. I maestri dello spirito hanno sempre insegnato che il modo più sicuro per vincere le tentazioni sta nel fuggirle; figurarsi se proprio Dio ci mette in tentazione!
Ma le parole di Giacomo sono preziose anche per un altro motivo. Egli non chiama in causa né Satana né nessun altro, se non l’uomo stesso e la sua naturale, congenita quasi, inclinazione al male (concupiscenza), i suoi smodati e disordinati desideri di potere, di ricchezza, di piaceri (è «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, e la superbia della vita» di cui ci parla Giovanni nella sua prima lettera, Gv 2,16). Noi lo chiamiamo anche peccato originale. In fondo vincere le tentazioni si risolve proprio in questo: respingere gli assalti della nostra concupiscenza o, in termini più familiari, dei nostri disordinati istinti, per accontentare i quali ci rendiamo spesso disponibili a ogni nefandezza. Non c’è bisogno che qualcuno ce li attizzi; sappiamo tenerli desti da soli.

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