Bussate e vi sarà aperto. Parola di Benedetto XVI


Non ho intenzione di riprendere il discorso sulla messa in latino. Quello che potevo sapevo dovevo dire, l’ho detto. A chi volesse un’esposizione assolutamente compiuta e perfetta di un pensiero che è anche il mio, procuri di leggere l’articolo del Priore di Bose, Don Enzo Bianchi, (La Repubblica 8. 07). Con un tono pacato ma carico di sofferenza, il Priore, ormai da molti anni punto di riferimento per la spiritualità di molti cristiani non solo in Italia, così esprimeva la sua amarezza: «Noi cattolici, per la convinzione profonda che il vescovo di Roma è il servo della comunione ecclesiale, obbediamo anche a prezzo di fatica, di sofferenza e di non piena comprensione di ciò che ci viene chiesto autorevolmente e che non contraddice il vangelo: siamo anche capaci di obbedienza pur dissentendo lealmente e con pieno rispetto».
Sono parole pesanti: obbediamo anche a prezzo di fatica, di sofferenza e di non piena comprensione. Anche a voler essere cattivo, ma non voglio, non saprei trovare parole più dure.
Queste parole sono l’aperta denuncia d’una contraddizione lacerante: il papa dice di aver voluto, con questo motu proprio, favorire l’unità della Chiesa, componendo divisioni e riparando errori che forse si potrebbero configurare come vere e proprie ‘colpe’ della Chiesa (e soprattutto dei papi che l’hanno preceduto). Perché, cosa altro possono voler dire queste parole di Benedetto XVI nella lettera con cui il papa ha annunciato e presentato il documento ai vescovi di tutto il mondo? Le si legga con l’attenzione che meritano.
«Si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare». A chi si possono riferire queste parole? Non certo a Giovanni XXIII (era già morto). Non certo a Giovanni Paolo I (non ne ha avuto il tempo). Restano solo Paolo VI e Giovanni Paolo II (magari con i loro stati maggiori). Proprio i suoi tanto «amati e venerati predecessori», come lui ama esprimersi. E si noti: il papa parla proprio di «una parte di colpa»: veramente un linguaggio insolito sulla bocca di un papa, specialmente nei confronti di un papa che di lui aveva fatto una specie di alter ego (paragonabile in questo solo al card. Ruini).
Non posso non esprimere la mia sorpresa. Gradita sorpresa, devo dire. Perché mica è tanto facile sentire un papa riconoscere gli errori dei suoi immediati predecessori! Giovanni Paolo II aveva aperto la strada, ma si era limitato ad errori di alcuni (Galileo), o anche di molti secoli fa (le crociate). Le colpe lontane fanno sempre meno male di quelle vicine. Aver parlato di parte di colpa anche per il vicinissimo ‘ieri’, potrebbe far sperare qualcosa anche per l’oggi.
Ma non sono sicuro che possa essere proprio Benedetto XVI il primo papa moderno a riconoscere di poter avere sbagliato lui qualcosa. In fondo le riserve del cardinal Ratzinger alle riforme introdotte nella liturgia latina dal Vaticano II non sono certo un mistero. Non è da oggi che si parla di una propensione del Ratzinger – prima teologo, poi cardinale prefetto del più importante dicastero romano, e ora papa – a pensare a «una riforma della riforma» in campo liturgico. A scorrere con una qualche attenzione il testo del motu proprio c’è da nutrire qualche preoccupazione.
È assai probabile che il peccato originale della liturgia latina post-tridentina sia da cercare in quella rivendicazione, tenacemente perseguita dalla Santa Sede, della assoluta ed esclusiva competenza in materia liturgica. Chi conosce un po’ di liturgia, sa bene che ‘in principio non era così’. Quella che Trento imporrà a tutta la chiesa di rito latino come pura liturgia romana, in realtà era soltanto il risultato di lunghi secoli di differenze, contrasti, scomuniche, processi centrifughi e centripeti, che, attraverso innumerevoli colpi di ‘taglia e incolla’, erano confluiti a Roma da tutto l’orbe cattolico, e da Roma a Trento, in quei suoi nuovi libri liturgici che, nell’intenzione di papa Pio V, avrebbe dovuto durare in saecula saeculorum.
La breve citazione di cui sopra, va avanti così: «Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente». L’allusione ai seguaci del vescovo scismatico Lefebvre è trasparente.
Ed è proprio su questo punto che mi sento di dover affondare il bisturi. Si calcola che «in tutto il mondo questi cattolici con sensibilità tridentina siano circa 300.000 con circa 450 preti, sul totale di un miliardo e 200 milioni di cattolici, e di essi circa la metà appartiene alla porzione scismatica dei seguaci di mons. Lefebvre»( Enzo Bianchi). Lodevole l’attenzione verso una tanto sparuta minoranza. Perché questo sia possibile Benedetto XVI fa diventare ‘forma straordinaria’, ma praticabile senza nessun particolare permesso del vescovo, l’uso del Messale di Giovanni XXIII.
E io mi domando allora: com’è che per uno dei più grandi e storici capitoli della riforma conciliare in materia liturgica, quello dell’introduzione della ‘terza forma’ del sacramento della penitenza (quella che consente un’assoluzione generale dopo una generica confessione di peccato in una celebrazione comunitaria del sacramento) non si trova il verso di liberalizzarla? Questa forma, prevista per alcuni casi eccezionali (grande afflusso di penitenti, scarsità di confessori) è stata messa in quarantena prima ancora di nascere, e almeno per l’Italia, lo è tuttora (Congregazione per la Dottrina della Fede, Norme pastorali, 1972). Quando nacque (dicembre 1973) il nuovo Ordo Penitentiae fu subito messo in incubatrice. Sono passati (per l’Italia) 34 anni. Non ne è ancora uscito.
Mi domando ancora: se mezzo milione di persone nel mondo merita tanta attenzione che il papa ci ‘spreca’ un motu proprio, la fuga dai confessionali che da decenni caratterizza la Chiesa cattolica non merita almeno altrettanta attenzione? Qui si tratta di decine, centinaia di milioni di fedeli che non si confessano più. Ci fu un’altra occasione nella storia, in cui si verificò un caso del genere. Era il sec. VI. Nessuno più si avvicinava alla penitenza. Le penitenze erano troppo gravi e la riconciliazione si poteva ottenere una sola volta nella vita. Tutti aspettavano d’essere sul punto di morte per chiedere la riconciliazione. A risolvere il problema provvidero i monaci dell’Irlanda. Ignoranti com’erano di diritto e di teologia, essi confusero le penitenze che essi facevano in monastero quando commettevano qualche infrazione con la penitenza sacramentale cui i laici erano sottoposti per i peccati più gravi. Il discorso era semplice: se facciamo così nel monastero, perché non con i fedeli? Col tempo questo nuovo uso giunse nel Continente. Apriti cielo! Le condanne fioccarono. Ma le condanne caddero e il nuovo modo rimase. Anche oggi, a centinaia di milioni, i cristiani disertano la penitenza. Per loro non ci sarà un motu proprio, un ‘motarello’ piccolo piccolo, per restituire all’abbraccio della misericordia di Dio quelle anime? Mi andrebbe bene anche in latino.

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