La Triste Parabola d’Un Uomo “Che Fu”


Questo articolo, è stato scritto a caldo, dopo le parole di papa Francesco all’apertura dei lavori dell’Assemblea generale della CEI (16 maggio). Poi ho preferito scrivere qualcosa per la morte di Marco Pannella.

Devo dire che quelle parole del papa mi hanno profondamente turbato. Non perché non fossero giuste, ma perché mi sono suonate come una riprovazione di gran parte dei miei primi trent’anni di servizio in parrocchia.

Certo Francesco ha ragione quando afferma che «il contesto culturale è molto diverso da quello in cui i preti hanno mosso i primi passi nel ministero. Anche in Italia tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca”. A chi si riferisse è evidente: ai preti della nostra generazione (1937 lui, 1939 io),

Queste parole mi han fatto tornare alla mente le parole d’un prete perugino, intelligente e sensibile, stimato dai preti e amato dal suo popolo. Si chiamava don Giulio Giommini, all’epoca parroco di Papiano. Più avanti di me di diversi anni, ma ancora giovanile, brillante e di piacevole conversazione, a volte veniva a trovarmi in parrocchia per chiedermi qualcosa che l’aggiornasse sui grandi rivolgimenti che la Chiesa stava vivendo in quei primi anni del post concilio. Mi “invidiava” molto il tempo passato a Roma all’interno dell’Aula conciliare, mentre lui si sentiva ormai un “prete fu”, vecchio perché superato dagli eventi”. “Non è un bel sentirsi”, concludeva.

Leggendole parole di papa Francesco, mi sono sentito anch’io, per la prima volta in vita mia, “un prete fu”. È stato per me come un secchio d’acqua fredda addosso. E io non amo il freddo.

Non che le parole di Francesco non fossero giuste, Anzi mi davano anche ragione su un punto cui io tengo molto e per il quale ho anche dovuto pagar caro e di persona: la consapevolezza che anche nella Chiesa, come nella Storia, quello che è oggi, domani potrà non essere più, e quello che oggi è proibito, domani potrà essere permesso e perfino lodato; o l’esatto contrario. Nessun oggi sarà mai come il suo domani, e nessun domani sarà mai identico al suo ieri. Perché c’è sempre un giorno in cui tutto si rompe e niente è più come prima. Del resto ogni processo di avvicinamento richiede tempo. Anche nella Chiesa: e nello stesso momento in cui tu sei arrivato, appena farai il primo passo in avanti, comincerai già ad allontanarti dal traguardo appena raggiunto.

Per esempio: potete immaginare due papi più diversi di Pio XII e di papa Francesco? Ma il primo ad accorciare le code ai cardinali fu proprio Pio XII. E da lì, il terremoto.

Subito dopo, infatti, “venne un uomo il cui nome era Giovanni”. Pareva un bonaccione e lo chiamarono “il papa buono”; ma proprio quest’uomo ha dato inizio alla più grande rivoluzione della storia dal tempo di Gregorio VII in poi. Ebbe perfino il genio di essere il primo papa “ad approfittare” della breccia di Porta Pia pur di rimettere i piedi da papa nella nuova Italia.

Poi venne Paolo VI, timido, colto, diplomatico, aperto alle istanze delle nuove teologie, ma rispettoso della tradizione fino all’autogol della Humanae vitae, che tante anime ha allontanato dalla pratica religiosa. Poi venne il globetrotter Giovanni Paolo II, con le sue numerose richieste di perdono per numerosi errori della Chiesa del passato. Poi papa Benedetto XVI, il cui nome sarà ricordato soprattutto per aver “sdoganato” con le sue dimissioni il ritiro di un papa anche solo perché anche i papi invecchiano.

Questi furono i prodromi, di fronte ai quali il coraggio, l’attivismo continuo e quasi frenetico con cui papa Francesco sembra voler bruciare i tempi, può sembrare perfino eccessivo. Ma egli sa che il tempo “s’è fatto breve” e già da tempo sta suonando il campanello che avvisa la Chiesa che è in partenza l’ultimo treno utile per viaggiare al passo con la Storia umana e con la stessa Storia della salvezza. Né va dimenticato quel suo vago presagio “ho l’impressione che il mio papato non sarà lungo” (cito a memoria).

Ma per tornare al punto iniziale: dove ho imparato questo mio grande amore per le mie chiese?

In seminario, è chiaro. Il modello? Il Santo Curato d’Ars, il patrono dei parroci. Sì, proprio quello che mangiava una patata lessa al giorno (e scondita!) e due la domenica (il ghiottone!). La sua casa era d’una povertà da far paura e sulle pareti della sua camera ho visto anch’io le macchie del suo sangue schizzato sui muri dalle punte di ferro della frusta (disciplina la chiamano) con cui si flagellava a sangue la notte.

Ebbene questo campione di austerità e povertà, voleva per la sua chiesa tutto il meglio: ostensori, calici e paramenti dovevano essere tutti preziosi. Per sé nulla, per il Signore solo il meglio. Io avevo fatto mia quest’ultima parola (molto meno la prima, purtroppo!).

Così, arrivato in parrocchia, ho cercato di imitarlo almeno in questo, e per le mie chiese ho cercato sempre il meglio e il più bello di ciò che le nostre modeste possibilità ci permettevano. Con il mio amore per le mie due chiese, speravo di destare lo stesso amore nei miei parrocchiani. E ci riuscii. Alla fine erano essi stessi che in occasione di qualche data di famiglia da ricordare (battesimi, cresime, matrimoni, funerali) venivano a chiedermi di che cosa potevo aver bisogno per le nostre chiese.  Io chiedevo loro su quanto potevo far conto ed essi mi indicavano la cifra, lira più lira meno. Al resto pensavo io: sceglievo, pagavo, mostravo loro l’oggetto acquistato ed essi versavano contenti l’importo. Felice io, felici loro, felice la comunità che, del resto, non s’è mai tirata indietro, nemmeno di fronte a imprese ben più gravose di un semplice dono.

Così lunedì 16, mi son dovuto chiedere: ma davvero avrò sbagliato tutto? Avrei dovuto dare tutto ai poveri? Una scusante magari ce l’ho: allora io non avevo poveri in parrocchia, avendo tutti un lavoro sicuro. E ne ho in serbo anche un’altra, la principale: questa era l’educazione ricevuta in seminario e che io avevo voluto far mia.

Obiezione: bastava affacciarsi alla finestra per vedere quanti sono i poveri nel mondo, magari lontani da noi. È vero. Ma il samaritano si fece prossimo della vittima dei ladroni solo quando gli fu “fisicamente” vicino e lo poté vedere: fu proprio quel “vedere” a suscitare in lui la compassione. Rimanendo in Samaria o in Gerusalemme non lo avrebbe mai assistito. Anche se è vero che oggi sono loro, i poveri che ci si fanno vicini. con l’immigrazione, quei poveri ci sono ormai tutti “prossimi”. Ma essi sono popoli e la mia è una parrocchia di 450 persone, molte delle quali anziane e con pensione al minimo.

E ora una domanda la faccio io: o non sarà stata colpa di chi – e non fui certo io – che 11-12 secoli fa – s’è andato a inventare niente meno che una donazione dell’imperatore Costantino il Grande a papa S, Silvestro I (che eran già morti 5-6 secoli prima), con la quale si assegnava a Roma, un dominio territoriale che Dante Alighieri rinfacciò a Costantino (perché questo allora si credeva, prima che l’umanista Lorenzo Valla la sbugiardasse come un falso:

« Ahi Costantin di quanto mal fu matre / … quella dote

che da te prese il primo ricco patre!» (Inferno XIX, 117-119).

Detto questo a mia “discolpa”, per tutto il resto papa Francesco ha ragione da vendere. Ed è lodevole quanto cerca di fare in questo senso. Quanto a me, continuerò a fare ciò che ho sempre fatto: curare con amore le mie chiese e aiutare, nelle mie scarsissime possibilità i poveri più vicini. Sperando che basti al buon Dio.

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