Il Precetto Festivo In Una Società Postcristiana


 

Ferragosto è appena passato e, fra pochi giorni, esauriti anche gli ultimi scampoli d’estate, la stagione delle ferie sarà per tutti solo un malinconico ricordo.

Non è una bella stagione l’estate, per un prete in parrocchia, specialmente se piccola. La Chiesa, già quasi sempre semivuota, in luglio e agosto si svuota ancora di più. Di giovani ne vedi pochissimi. Bambini niente proprio. Del resto è domenica!

Appunto, è domenica! Una volta le domeniche facevano riempire le chiese: le prime due piene di donne, alle 10 piene di giovani, a mezzogiorno piene di adulti e anziani (più uomini che donne).

Oggi, anche a causa della mancanza di preti, si fa quel che si può. Qualcuno ne dice anche tre o quattro, una per ogni parrocchia che ha in cura. Quella delle 10 solo nelle mega parrocchie.  In quelle piccole o piccolissime, basta una messa al mese o ogni 15 giorni.

Ma, paradossalmente, il vero problema non sono i preti, ma i fedeli. Perché molto spesso, entrando in chiesa, ti domandi: ma valeva la pena di “sprecarci” un prete per questi quattro gatti? In queste condizioni ti aiuti con le statistiche, e ti rendi conto che le cose vanno ancora peggio di quanto pensavi. Chiedi conforto a un confratello e quello ti dice: “non fartene una colpa: guarda che è dappertutto così”. Forse intendeva consolarti; in realtà ti ha distrutto, perché ti ha tolto ogni speranza. Finché pensavi che la colpa era tua, potevi illuderti che altrove le cose andassero meglio.

Dall’ultimo rapporto ISTAT 2016 sulla situazione della vita religiosa in Italia, veniamo a sapere che la situazione in Italia è in costante, consistente, rapido peggioramento. Tanto più grave in quanto questo calo non interessa solo il cristianesimo né solo la religione cattolica, ma la pratica religiosa in quanto tale, dunque anche islam ed ebraismo. Il mal comune qui non ti consola per niente..

Ecco due brevi estratti del rapporto ISTAT di quest’anno 2016:

«Nel 2006 coloro che frequentavano la chiesa, la moschea o la sinagoga almeno una volta a settimana erano il 33,4 %, mentre dieci anni dopo la percentuale si ferma al 29 % (-4,4). Non solo è sceso il numero di coloro che partecipano almeno alla celebrazione principale della settimana, ma è aumentato anche il numero di coloro che non frequentano mai, passati dal 17,2 al 21,4 % (+4,2)».

E ancora: la fascia d’età che frequenta di meno i luoghi di culto rimane quella tra i 20 e i 24 anni, ma a sorpresa il calo maggiore si è avuto tra i 55 e i 59 anni (-30 per cento) e i 60 e i 64 anni (-25 per cento). In prospettiva futura sono interessanti i dati che mostrano l’andamento della curva di chi non frequenta mai (udite, udite!): tra i bambini vi è stata una crescita del 57 %,  tra gli adolescenti del 35 %».

Si tratta, come si vede, di un vero bollettino di guerra. Peggio di così!

Che fare dunque? Niente, naturalmente! Per ora nelle alte stanze stano riflettendo. Non disturbate per favore. Papa Francesco fa del suo meglio nel cercare di disturbare, ma per ora niente si muove, su questo campo. Forse faremo bene a sciogliere al vento un treno greco: tante volte si svegliasse qualcuno.

Io una proposta ce l’avrei. Eccola.

Bisognerebbe convincere la Chiesa che è arrivato il tempo per lei di prendere coscienza che mondo e Chiesa sono due realtà diverse, con fini diversi, competenze diverse, principi e regole diverse.

In queste condizioni, sarebbe bene che la Chiesa si rassegnasse a rinunciare d’avere sempre diritto all’ultima parola su ogni questione di morale;  rinunciasse a pensare che su tutte, o quasi, le questioni etiche, lo Stato è sempre tenuto ad attenersi alle decisioni della Santa Sede o delle conferenze episcopali. Che essa farebbe bene a porsi come interlocutrice attenta e “alla pari” con tutte le forze oneste del Paese.

Ebbene, io credo che quest’ora sia giunta già da tempo e, con essa, anche il tempo in cui la Chiesa dovrà prendere coscienza che il calendario civile non potrà mai più essere di sua esclusiva competenza, ma che in questo punto lo Stato laico ha un diritto di prelazione, dal momento che in una società complessa come  quella attuale, troppi sono gli attori con diritto di parola. Come togliere e a chi, il proprio diritto di dire la sua?

La Chiesa ha sempre ritenuto d’avere essa sola il diritto di stabilire festività e ferialità nei 365 giorni dell’anno. Pensiero che non farebbe una piega se si trattasse di una società omogenea, dove o tutta o almeno la stragrande maggioranza del popolo si riconoscesse nell’insegnamento etico e religioso della Chiesa. Ma così non è.

Anzi ormai, (e l’ISTAT ce l’ha confermato) almeno per l’Italia, ma probabilmente anche per tutto il resto d’Europa, la religione cristiana e in particolare quella cattolica, è ormai solo una minoranza, ragguardevole ancora certamente, ma altrettanto di certo, in continuo rapido calo di consensi e di adesioni.

Ora in quale società moderna si potrebbe accettare che una minoranza detti la sua legge alla maggioranza? E come potrebbe la Chiesa rivendicare un tale diritto fondato su di che? Sulla storia? Ma in politica e in democrazia conta la maggioranza di oggi non quelle della storia remota. Così è stato infatti in passato: quando la Chiesa è giunta al potere e ha potuto mantenerlo o da sola o mediante alleanze,  la Chiesa è stata al potere e ha agito come ha voluto. Ora che il direttore d’orchestra è cambiato, anche gli orchestrali devono adattarsi alle direttive del  nuovo Direttore.

Mi si dirà: fuori le conclusioni: che proporresti in cambio? Eccola mia proposta.

La  prima cosa da fare è rimettere in discussione il ritmo settimanale del calendario liturgico della Chiesa.

Ora gli orari di lavoro e di riposo, di impegno e di disimpegno, di presenza e di svago non sono più quelli del passato. E ai nuovi ritmi, imposti dallo Stato o dall’organizzazione della società moderna, nessuno può più sottrarsi. Se tu sei nell’ingranaggio non ne puoi venir fuori. La domenica ormai è per i più il giorno del tempo libero, dello sport, della famiglia, dello svago, dell’amicizia della cultura e dell’arte. Metteteci dentro una messa:  ci starà spesso scomoda. Le assenze si faranno sempre più numerose e le presenze diminuiranno sempre di più.

Dovremmo allora cancellare il terzo comandamento? Dio liberi! Ma lo si potrebbe modulare in maniera diversa. Fermo lasciando il principio e la realtà che la domenica resta per la comunità il giorno del Signore, si dia anche la possibilità ai singoli fedeli di scegliersi giorni e ore diverse per l’assolvimento del precetto settimanale. Se di domenica sto in treno, per lavoro, per sport, per motivi culturali, perché non dovrebbe bastarmi innalzare a Dio il mio pensiero, dovunque io sia o vada? Poi sarà mio pensiero e dovere scegliermi un giorno fra gli altri sei per andare a prender parte a una messa, ascoltare la Parola, fare la comunione eucaristica, incontrare i miei fratelli.

L’obiezione: Non sarà mai paragonabile la bellezza e la solennità d’una liturgia domenicale con quella d’un qualunque giorno feriale. La mia risposta è semplice: certo che no! Ma quanta gente in caso di bisogno o per cavarsi uno sfizio culturale o sportivo rinuncia a ore di sonno a un pranzo comodo e gustoso accontentandosi di un sonnellino in macchina, di un panino all’autogrill? E poi perché non prevedere un altro giorno della settimana in cui il celebrante potrà essere autorizzato a ripetere le letture e l’omelia della domenica? Si dirà: c’è già il sabato sera. Certo, e quello rimane. Ma per certe attività o spostamenti, sabato sera e domenica sera fanno un tutt’uno. Bisogna cercare altro.

Ho bestemmiato? Spero di no. Comunque sarei grato a chi volesse interloquire con me su questo punto. Anche dicendomene quattro.

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