Al Tempo Delle Guerre Mondiali “A Pezzi”


Presa in sé, la metafora è brutta: forse proprio per questo, essendo stata detta da un papa, tutta la stampa se ne è impadronita e la ripete, appena può, da un giornale all’altro, da una pagina all’altra.

Parlo di quella espressione che piace tanto a papa Francesco, che non fa che ripeterla: “noi stiamo già vivendo una terza guerra mondiale; solo che è una guerra mondiale che si combatte a pezzi”. La citazione, come io la riporto, è solo un modo fra i tanti in cui Francesco l’ha pronunciata. Deve piacergli molto se ne parla e se la ripete continuamente.

Dicevo che da un punto di vista estetico non è un capolavoro e più d’un linguista, appena appena dedito anche al bel parlare, troverebbe da ridire.

Una guerra non si combatte “a pezzi”, ma in modi, tempi, fronti, scacchieri, strategie, campi di battaglia diversi…Ma “a pezzi”!

L’avesse detto un altro, sai gli starnazzi da tutte le oche del campidoglio linguistico, ma detto da Lui, viene considerato con la stessa tolleranza che si concede ai poeti, ai quali, si sa “tutto è lecito” e anzi, qualche volta, giocano proprio sulla stravaganza dell’espressione e della similitudine per colpire  più profondamente i destinatari del messaggio.

Questo quanto all’efficacia e alla proprietà linguistica della metafora. Quanto alla sua verità, invece nulla da eccepire: anzi spesso, proprio la novità dell’immagine gioca un ruolo importante sulla riuscita e sull’efficacia del messaggio che si vuol trasmettere. Lo sanno bene i creatori di messaggi pubblicitari: chi non ricorda lo slogan “chi vespa mangia le mele”? Che aveva a che fare il fortunatissimo motoscuter con l’odioso e perfino pericoloso insetto il cui pungiglione può diventare tanto pericoloso da poter rappresentare uno spauracchio per chi gli  sia allergico, potendo procurargli un temibile shock anafilattico? Niente naturalmente, ma appunto: tutto veniva giocato su questa “sgrammaticatura” lessicale e sintattica per ottenere un miglior risultato.

Non credo proprio che papa Francesco, nel coniare il suo SOS abbia avuto questo tipo di intento. Il suo italiano, pur molto corretto per un oriundo, non è sempre impeccabile. E ciò non gli nuoce affatto. E questo è uno dei casi. Certo non sarebbe così se l’espressione dovesse superare l’esame dei rigidi luminari dell’Accademia della Crusca.

Era questa attenzione che papa Francesco cercava e questa attenzione il papa ha ottenuto. Ora tutto il mondo si sforza di adottare la sua frase, come fu per papa Giovanni XXIII, quando lanciò l’italianissimo termine “aggiornamento”, spiazzando il mondo intero e costringendo tutti i saggisti e le redazioni dei giornali e delle riviste a cercare nelle loro lingue o un termine equivalente, o a crearne uno che potesse equivalergli.

Perché questa “guerra mondiale a pezzi” esiste veramente e di vittime ne fa tante che quasi non passa giorno senza che da una parte o dall’altra del pianeta, e spesso anche in più parti  contemporaneamente, se ne debbano contare le vittime a decine.
Quella di Padre Jacques Hamel, 86 anni, parroco di Saint-Etienne-du-Rouvray, vicino a Rouen, in Normandia, spicca su molti altri attentati per la ferocia e la viltà degli assassini.

Entrati in Chiesa, mentre il prete stava celebrando la messa, essi hanno preso in ostaggio i fedeli e hanno cercato di costringere il vecchio parroco a inginocchiarsi. Secondo la testimonianza di una suora presente al fatto, proprio al suo rifiuto di inginocchiarsi sarebbe scattata la rappresaglia, e il prete è stato sgozzato con i coltelli di cui i terroristi erano armati. Essi stessi poi sono stati uccisi dalle teste di cuoio francesi prontamente intervenute.

Lo stesso presidente della Francia, François Hollande, ha apertamente parlato di guerra: «La Francia è in guerra. All’esterno, in Siria e in Iraq. All’interno, cercando jihadisti, estremisti e terroristi. Ma vi assicuro che vinceremo questa guerra».

È questo un ottimismo non facile da condividere, perché “questa guerra” è assai diversa non solo dalle guerre convenzionali, ma anche da quelle guerriglie a cui molti diversi terrorismi, in ogni parte del mondo, ci hanno ormai abituati. Diversa, per esempio, da quella ingaggiata contro le Brigate Rosse, contro Lotta Continua e tutte quelle, pur tanto diverse fra loro, ma anche fondamentalmente assai simili, che hanno pesantemente segnato di lutti e di sangue l’Europa del XX secolo.

Perché oggi la guerra non è fra la strapotenza dello Stato, ancorché piccolo e diviso in sé stesso, e la fragile e improvvisata forza d’una organizzazione sovversiva o d’una società segreta e fuorilegge.

Qui, dietro quegli assassini “per vocazione religiosa”, c’è una vera potenza internazionale che sa combattere diverse battaglie su fronti, campi e con armi diverse: una guerra senza frontiere, combattuta senza scrupoli né riguardi per nessuno. Colpire e uccidere, comunque e dovunque, certi che quello che vogliamo ottenere seguirà senza fallo: il trionfo di Allah e del Corano e il paradiso per i martiri che si sacrificheranno per uccidere il più possibile dei cani infedeli. Quanto a questi ultimi non potranno sfuggire alla punizione di Allah.

Con questi presupposti ogni guerra dovrà essere senza condizioni: più morti si conteranno, più la vittoria sarà piena, perché avremo dato più martiri ad Allah e più dannati all’inferno.

Dove pensiamo che potrebbe collocarsi il papa in un conflitto del genere?

Egli lo ha detto ripetutamente e continuerà a ripeterlo: solo nel dialogo fra le fedi si troverà la via che conduce alla pace universale. In questa strategia si collocano i segni profetici dei suoi viaggi nelle regioni più contrastate, come quelle “in partibusinfidelium”e quegli straordinari segni di comunione di sentimenti e di propositi come quello dell’ulivo piantato in Vaticano da un papa, un arabo e un israeliano tra i quali spunta qua e là un patriarca ortodosso.

In questa linea si colloca anche l’insistenza di papa Francesco sulla prevalenza simbolica dei ponti sui muri, vedendo nei primi un segno di civiltà e fratellanza e nei muri un segno di divisione voluta e difesa contro ogni volontà di unità e di pace. Chi ha visto anche solo una volta in vita sua i campi di concentramento nazisti, il muro di Berlino (quando ancora era in piedi), o il muro che divide Gerusalemme da Betlemme, cioè Israele dalla Palestina – come dire il Calvario da Betlemme – avrà certamente conservato in cuore l’amarezza di quei minuti che ti parlano di odio invece che di amore, proprio là dove l’amore ha saputo dare tutto se stesso e il proprio sangue per la salvezza di tutti. Sapranno le nuove generazioni raggiungere quei traguardi che alla nostra sono sfuggiti? Sinceramente non so, e se dovessi dire sino in fondo quel che penso, visto come si mettono le cose, direi più no che sì. Sperando tanto di sbagliarmi.

Perché se non ci sbagliamo noi, sarebbero dolori per tutti. “Quod Deus avertat”. Che Dio non voglia.

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