C’è qualcosa di nuovo oggi nel Sole…


I bei versi con cui s’apre la bellissima e struggente poesia di Giovanni Pascoli, L’aquilone, mi sono stati richiamati alla mente dalla lettura della notizia letta su La Stampa di lunedì scorso 26 gennaio, in pagina 15. La notizia era data con titolo su quattro colonne. Eccolo:
«Il parroco diventa papà e i suoi parrocchiani lo applaudono in chiesa». Sottotitolo: «Don Claudio ha annunciato la paternità alla fine dell’omelia».
Già così la notizia sarebbe sensazionale: non tanto nel fatto che il parroco lo abbia detto pubblicamente in chiesa, alla fine della sua ultima messa da prete e da parroco (alcuni casi analoghi i giornali li hanno già riportati in passato), ma è ciò che è seguìto all’annuncio che sa “di nuovo”: e nemmeno “sotto il sole”, come dice Qoelet, ma “nel sole” stesso, sorgente e garanzia di calore, di luce e di vita per tutta la creazione, secondo la rappresentazione corrente in quei tempi per noi lontanissimi.
L’assemblea che applaude, i complimenti al protagonista e perfino le parole del vescovo che commenta il fatto con una comprensione e una disponibilità (in stile molto papa Francesco) fanno ben sperare per il futuro.
Ciò che poi è accaduto sul piano canonico è altrettanto beneaugurante. Come era del tutto normale, il parroco ha detto che quella era la sua ultima messa: «Nella Chiesa non è ancora ammessa la possibilità di svolgere il ministero sacerdotale e al contempo portare avanti una famiglia»: così, “dopo una lunga e seria riflessione ho preso la mia decisione di affrontare una nuova scelta». E qui è scoppiato l’applauso. Quanto a lui, ha anche detto che per lui la Chiesa rimane una madre e per questo “vorrei continuare a lavorare per la Chiesa che amo e per la quale ho dedicato tutto me stesso».
E il vescovo? Se l’è cavata molto bene: ha preso atto della decisione del suo prete, ne ha accettato il ritiro dalla parrocchia, ha fatto sapere che sarà presto sostituito e che è già stata avviata la procedura per chiedere la dismissione dallo stato clericale”. Ottimo: non poteva dire e fare niente di più. Si noti la formula veramente elegante: “dismissione dallo stato clericale”, non la più burocratica e mortificante “riduzione allo stato laicale”. Un figlio amato non si riduce, semplicemente gli si permette di ritirarsi e di cambiare lavoro o professione. Parole di non poco conto, bisogna riconoscere.
Poi il vescovo ha anche detto qualcosa sulla persona, sull’uomo e sul prete: «Una decisione vissuta con sincerità e dettata da coerenza con il suo nuovo orientamento di vita. Continuerà a essere un figlio di questa chiesa e nostro fratello che amiamo». Qui il vescovo merita davvero una lode.

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Quanti anni luce sono passati da quando le storie di preti spretati finivano nei romanzi e nei film, facendovi sempre pessime figure (Il famosissimo Diario di un curato di campagna (1951) di Robert Bresson, tratto dal capolavoro di G.Bernanos, dove pure la figura dello spretato è soltanto quella di un patetico comprimario, e Lo spretato di Léo Joannon, 1954, con un luciferino Pierre Fresnais)? Si era ancora negli anni Cinquanta, e il Concilio Vaticano II era di là da venire, tanto che lo stesso Microfono di Dio, il grande predicatore che tutto il mondo ci invidiava, il gesuita p.Riccardo Lombardi, vide cadere nel vuoto la sua proposta avanzata proprio in vista del Concilio nel libro Concilio. Per una riforma nella verità, 1961. La proposta era di concedere una possibilità di riconciliazione, almeno in punto di morte, per i preti che avevano lasciato il ministero per unirsi in matrimonio a una donna. Una tale durezza sembra a noi, oggi, inconcepibile, ma padre Lombardi era di quelli “che nell’andare vanno e piangono portando la semente da gettare”, mentre noi siamo oggi fra quelli che “nel tornare, vengono con giubilo portando i loro covoni” (cfr. Sal 126,6). Delle proposte contenute nel libro, che fu presto ritirato dal commercio, nessuna fu accolta, e hanno dovuto aspettare papa Francesco per entrare finalmente nell’ordine del giorno della riforma della Chiesa. Ma su questa straordinaria figura di profeta in disgrazia converrà ritornare presto.
Dal 1961 al 2015 solo cinquantaquattro anni sono passati: molti? pochi?… chi può dirlo? In ogni caso un niente davanti alla Storia. Ecco perché sarà sempre lecito, davanti a ogni progresso, vivere nell’ attesa del prossimo passo avanti, talvolta nell’impazienza di fronte a un ritardo che ci appare immotivato, altre volte nella serena fiducia che altre innovazioni verranno, che potranno forse tardare un po’, ma che non potranno non venire.
Così, davanti al fatto di cui parliamo ci sarà certamente chi dirà: “A che punto siamo arrivati, non c’è più religione!” e chi dirà: “Allora è vero: qualcosa si muove!”. Altri ancora diranno: “Forza, avanti tutta! Non c’è tempo da perdere, il mondo brucia, le chiese si svuotano, gli altari restano senza preti: che si aspetta ancora?”.
Ebbene, lo confesso: questa fretta è un po’ la mia. Non è smania: è urgenza! Ne ho viste di cose cambiare in meglio da quando al seminario romano non fecero entrare mia madre a trovare il figlio malato, solo perché la mia camera, dove del resto dormivo da solo, era clausura! Il fratello sì, perché maschio; la mamma no, perché donna!
Poi, per fortuna, ci fu il concilio, che io potei frequentare dall’interno. Allora capii che le cose stavano cambiando davvero e che io dovevo fare la mia parte. L’episodio del prete-padre, per come s’è svolto, dimostra che cambiare si può. Colgo volentieri l’occasione per iniziare a parlarne.
Nessun dubbio che preti vescovi e diaconi, lo si diventa una volta e lo si rimane per sempre. Sul piano ontologico non c’è dubbio. Ne consegue che mai, in nessun caso, se ne potrà interrompere l’esercizio? La conclusione non si impone. Di fatto, magari per forza maggiore, ma anche per personali esigenze e talvolta per altrettanto personali capricci, non mancano i casi di interruzione volontaria del servizio pastorale. Resta per chi ne fa richiesta, l’obbligo del celibato e dell’ufficio divino (salva dispensa), ma senza più oneri pastorali.
Ora la domanda: perché un prete che ha già donato al Signore e alla Chiesa 20, 30 anni della propria vita, dovrebbe essere guardato o sentirsi dare del traditore se gli dovesse accadere di sentire il bisogno di cambiare forma di ministero, tipo di impegno e magari lo stesso modo di vita? Perché dovrei guardare come uno spergiuro uno che dicesse che ora non se la sente più di continuare a vivere da solo, ora che la sua salute è malferma e gli impedisce di svolgere la stessa attività di prima? O anche se mi dicesse che il suo cuore sente il bisogno di una compagnia che gli sia sempre vicina?
Perché i 20, 30 anni che avrà già dato dovrebbero non contare più niente? O anche: perché non prevedere un clero che a una certa età sente il bisogno d’un impegno part time, dichiarandosi disponibile per alcune mansioni e per altre no, o solo per alcuni giorni, mentre il resto del suo tempo gli piacerebbe viverlo in maniera più normale? Chi potrebbe chiamare traditore un medico senza frontiere che ha già dedicato 10-20 anni della sua vita alle popolazioni più povere nelle zone più disagiate e pericolose del pianeta, solo perché a un certo punto dice “basta, torno a curare i miei malati in Italia”!
Non parlo si noti bene, di “dare moglie ai preti”. Non ci penso neppure. Dico invece che forse non sarebbe male che a un prete fosse dato di cambiare vita senza il timore che qualcuno gli possa gridare dietro spretato. E magari sentirsi ancora a servizio della Chiesa. Ma ho finito lo spazio. Meglio staccare del tutto che storpiare il concetto. Se a qualcuno interessa, a domenica prossima.

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