Svuotar la terra per riempire il cielo


Da un po’ di tempo sto portando all’ultima dimora i miei vecchietti, le persone della mia parrocchia che mi danno l’addio. Le ultime tre, erano tre donne. Tutte sopra i novant’anni, una ne avrebbe fatti cento se solo avesse avuto pazienza per altri 68 giorni. Macché! Le sue finestre si son chiuse, come i suoi occhi, l’ultimo giorno dell’anno appena trascorso. Le altre due un po’ più giovani: di poco sopra i novanta.
Tutte e tre a me molto care. Io, che non ce l’ho con la morte, che anzi la considero quasi un’amica, mi mi sono un po’ arrabbiato con lei. Che diamine! Poteva mica aspettare 68 giorni. E poi che è tutta ’sta fretta? Già tre in meno di tre mesi!
Oggi (ieri per chi legge) ne dovrò “portar via un’altra”. Così dice la gente. Non è una bella espressione. Non si porta via una persona. La si accompagna all’ultima dimora. È già più bello. Come si accompagnavano gli sposi dalla casa della sposa dove s’era fatto il pranzo, alla casa dello sposo dove la coppia si sarebbe stabilita per sempre e dove si sarebbe fatta la cena. In fondo era un addio anche quello. E la festa sarebbe andata avanti fino a notte fonda, quando gli invitati avrebbero lasciato la compagnia e gli sposi, frastornati, e sfiniti ma soddisfatti e felici, si sarebbero ritrovati, per la prima volta e per la prima notte, da soli. Allora era la regola, oggi… lasciamo perdere.
Era un corteo gioioso, quell’accompagno da una casa all’altra. Non c’erano macchine allora e le feste si facevano in casa; si ballava in piazza o sulle aie dei contadini, o nelle poche sale disponibili nei paesetti e nei villaggi d’intorno. Diversamente gli spostamenti avvenivano con i carretti tirati dai cavalli, o con i birocci, trainati dai buoi. Ho fatto in tempo a viverne due o tre, a tempo mio, prima di raggiungere i dieci anni. Poi sono andato via da casa, in seminario, e queste feste non le ho frequentate più. Si continuò così per qualche anno ancora. Poi basta. Oggi ormai non si accompagna più nessuno a piedi. A Casalina lo facciamo solo con i morti. In città nemmeno con loro.
Un passo indietro, come si diceva una volta, quando si raccontava un cinema all’amica invidiosa che non l’aveva visto. Dunque dicevo, che in un mese ne ho accompagnate tre. Tutt’e tre molto care (dicevo anche questo). Sicché il cuore deve per forza sentire un distacco, anzi uno strappo: sì perché è proprio uno strappo quello che senti dentro. Non è solo un pezzo di passato che scompare, che ti muore vicino: è proprio un pezzo di te che ti muore dentro.
Perché domani t’affaccerai alla finestra e vedendo laggiù quella finestra chiusa, da dove una volta una mano amica ti mandava un saluto di buon giorno, devi per forza pensare che qualcosa ti è morto dentro, perché quella mano non la vedrai più, né domani né mai. Mai più… mai più!
T’ha voluto bene, e le hai voluto bene? Mai più. Era importante per te? Mai più. Ti donava un sorriso e glielo ricambiavi? Non vuol dire!… Mai più!
Così è la vita. E della vita fa parte anche la morte. Ricordatene. Sempre!
Allora forse sentirai nascerti dentro un senso, un moto di ribellione: perché dovrei? Perché ricordarmene? Per avvelenarmi anche quel poco che mi resta da vivere? Perché se davvero dovessi pensarci, mi verrebbe piuttosto da urlare, per lo meno da piangere, pensando a quante occasioni ho sprecato, a tutti i no che ho detto o che ho dovuto dire, alle tante scelte sbagliate, alle tante opportunità lasciate cadere o a quelle negatemi… Se solo penso a quanto grande e quanto bello è il mondo e a quanto poco ne ho visto, ne ho gustato e goduto potrei solo far mio il disperato verso di Ugo Foscolo «questo di tanta speme oggi mi resta»!
E invece no. Davanti a quella bara che stasera mi sarà davanti, lì sulla nuda terra ricoperta solo d’una bianca croce di bianco compensato, so che mi sentirò sereno, pacificato con me stesso e col mio destino. Perché potrò dire a me stesso che di quello che è stato, solo in piccola parte è dipeso da me, è stato voluto da me. Altri, più importanti di me, più in alto loco di me l’ha deciso, l’ha voluto per me, senza mai chiedere il mio parere, solo la mia obbedienza. Quelle foglie cadute dai rami (le mie speranze sprecate) altri vènti me le hanno strappate. Avrei potuto reagire? Ribellarmi? Negarmi? Forse sì.
Invece ho lasciato che quelle cose accadessero, forse con la speranza che si sarebbero aperte altre porte, che si sarebbero offerte altre occasioni. Che non poi ci sono più state… O che non ho saputo riconoscere? Non so.
Oggi non ho più scelte: una sola è la strada che mi sta davanti. Quanto lunga non so. Spero solo che lo sia quanto basta per dare compimento a tutto quello che ho già per le mani. Uno solo è il mio impegno, oggi: non sprecarne più neppure una.
Ora per di più ho l’età dalla mia. Sono vecchio abbastanza per sapere che davvero ogni lasciata è persa. Che non mi è lecito perdere più nulla. E che ogni mia forza e speranza ormai è solo Dio. Il mio tempo è suo dono. Me lo mette in mano a ogni istante, e mi invita a farci sopra prima un pensiero, poi un preciso atto di volontà, onde non abbia a sprecarlo.
Così facendo sento nascermi dentro a ogni istante un desiderio, anzi un proposito: fermati, pensaci, prega, poi agisci come ti pare sia giusto. Come pare a te! Non fermarti davanti a nulla, a nessun ostacolo, se non davanti al tuo orgoglio, da rifuggire sempre su tutto e sopra tutto.
Ma quando ti sarai convinto che quella è la tua strada, segui sempre il sentiero dorato, quello che ti porterà diritto al Castello del Mago di Oz, alla volontà di Dio su di te. Sapendo bene che lì non troverai un impostore, come nel film, ma la vera luce, quella che non contiene inganni. Che sola potrà darti la pace.
Ora che molti fuochi si sono spenti, ora che molte stanze di quelle che hai ambìto aprire, le hai trovate vuote o vuote sono rimaste, non ti resta che puntare al Sancta Sanctorum, al Santuario, alla cella più intima e segreta del Tempio, dove solo puoi trovare la Verità. Ma i maestri di spirito son concordi nel dirmi che senza la chiave giusta in quella cella non entri. Non puoi entrare. Ma chi mi dica dove posso trovare quella chiave, non l’ho ancora incontrato. Nemmeno so dove abiti. Credo anzi di sapere che solo dal di dentro si può aprire quella porta inviolabile. Ma quella porta rimane chiusa, sempre chiusa. Desolatamente, disperatamente chiusa. E da nessuna parte io trovo quella chiave. Busso e chiamo, chiamo e piango ma la porta non s’apre. Come alle vergini stolte, nessuno mi risponde. Credo di saperne il nome, credo che quel nome sia Preghiera ma la mia chiave non entra, e se entra non gira nella toppa, e se gira nella toppa gira a vuoto. Dove troverò il maestro chiavaro che me ne possa forgiare una o darmene una copia già pronta? O come farò a trovare chi m’apre? O come potrò convincere chi è già dentro ad aprirmi? Che si faccia presto però. Non mi resta più molto tempo. La mia lampada è ancora accesa, ma se quella porta non s’apre, se non trovo presto la chiave, potrebbe anche spegnersi. Intanto al mio giubileo, manca giusto un mese. Quanto alla mia resa dei conti, io mi fido di Lui. E intanto gli mando avanti i miei compagni di tavola. Sperando che siano loro a convincerlo ad aprirmi. Intanto io li ricambio raccomandomi che di loro non manchi nessuno alla mia mensa.